All’Arena del Globe uno straordinario spettacolo shakespeariano di Daniele Salvo
Che Melania Giglio fosse un’ottima attrice, nell’ambiente teatrale lo si sapeva; che fosse un’artista capace di toccare nella stessa battuta tonalità ironiche, drammatiche e grottesche e, che riuscisse perfino a incantare con straordinarie doti canore da cantante soul, questa è una realtà che entusiasma davvero. Lei, insieme a Gianluigi Fogacci (altro eccellente protagonista del palcoscenico nostrano) e a Riccardo Parravicini, sono i magici artefici della convincente riduzione di Daniele Salvo dello shakespeariano poema narrativo scritto in versi nel 1592, in scena fino a domenica 24 (ore 18.30), all’Arena del Globe Theatre di Villa Borghese. Venere e Adone, tra i testi meno frequentati del Bardo, è un inno all’amore: il più romantico, il più appassionato, il più intramontabile, il più autentico leggero, e al contempo doloroso, sentimento che un poeta sia riuscito a fermare su carta. L’impronta è quella di un altro immenso cantore dell’amore, Ovidio, il quale nelle Metamorfosi racconta di Venere che, graffiata involontariamente da una freccia di Cupido mentre guarda Adone, se ne innamora perdutamente; cerca di dissuaderlo dall’andare a caccia, tenta di metterlo in guardia dai cinghiali e dai leoni; ma Adone non resiste al richiamo della selva e al piacere di tirare con l’arco. Ferito mortalmente da una belva feroce, viene soccorso dalla dea che giunge in tempo per vederlo spirare. Le lacrime di Venere disperata dalla perdita dell’amato, laddove si fusero con il di lui sangue, diedero vita alle anemoni.
Shakespeare, di questo mito, ne vide la rappresentazione che ne fece Tiziano Vecellio in un famoso dipinto, cogliendo il particolare dello sguardo e dell’atteggiamento di Adone, il quale tenta di sfuggire all’abbraccio di Venere (ecco la differenza con la narrazione ovidiana). E nella sua riduzione e messa in scena, Daniele Salvo accentua, al limite del grottesco, ma anche con estrema misurata delicatezza, la «famelica bramosia» di Venere che tenta di strappare un bacio all’amato: il cui unico desiderio amoroso è il disprezzo verso l’amore. Adone, infatti, le volta le spalle, fugge, non gradisce le conturbanti avances della dea, nulla lo tenta. Ne nasce una disputa fisica e verbale costante, sempre sostenuta da una recitazione assai ironica e spiritosa, a volte audace per i doppi sensi, a volte poetica come solo la penna del Bardo sa essere («… gli occhi si nascondono come le stelle vergognose del giorno…», dice un verso), all’improvviso interrotta dall’inaspettato lamento di Venere che appartandosi canta il suo dolore con la voce della Giglio, una voce calda, suadente e «negra».
Quindi riprende la controversia, divertente e caustica, lirica e severa, tra i due personaggi governati in scena dall’autore in persona (proprio Shakespeare, mica uno qualunque!), nelle vesti di burattinaio che manovra i suoi pupi e ne suggerisce le battute, oppure ne racconta le gesta e le intenzioni come in una radiocronaca pastorale o addirittura selvatica: eppure l’efficace scena di Fabiana Di Marco non prevede alcun riferimento visivo all’ambiente boschivo circostante, ma le fitte siepi (appunto, invisibili) che aggrovigliano l’animo di Venere sembrano quasi tangibili, costruite con i toni graffiati, con parole svelte, con movimenti rapidi e nervosi, con inciampi e cadute, che sono le difficoltà immaginifiche che l’amore crea.
Venere (Melania Giglio), tenace come il sentimento che l’avvolge, si lamenta di Adone (Riccardo Parravicini, perfetto nella parte), il quale preferisce correre dietro al cinghiale anziché porgerle le labbra da baciare, ma lui rimane ingenuamente freddo. Venere dichiara che lui, «bello come un adone», potrebbe avere con semplicità quel che Marte, dio della guerra, ha avuto dopo anni di richieste e di prove sostenute, ma Adone se ne infischia, brandisce l’arco perché il cinghiale lo attende. In questa accesa diatriba, i due seguono le direttive del capocomico, e da burattini ribelli quali sono, spesso debbono essere ripresi e riportati all’ordine, proprio come gli amici di Pinocchio nel carrozzone di Mangiafuoco. Fogacci, autore burattinaio, però, all’occorrenza sa anche essere direttore d’orchestra, con tanto di bacchetta per dirigere emozioni e imbarazzi, esuberanze e ritrosie, in un crescendo musicale e sentimentale senza tregua. Salvo è riuscito ad attualizzare un poema della fine del Cinquecento agendo esclusivamente sulla recitazione, includendo toni e allusioni che riflettono il sentimento del nostro tempo, senza stravolgimenti epocali che spesso tendono a mortificare le opere di Shakespeare. Uno spettacolo intenso e fresco (con effetto pioggia a sorpresa su una platea non gremita): novanta minuti di gioiosa appassionata teatralità da non perdere.
Credo di fare opera gradita a chiusura della recensione di questo primo incantevole spettacolo della nuova stagione con un omaggio al teatro e all’amore, riproponendo il monologo della maledizione di Venere, nella struggente traduzione di Daniele Salvo. Il monologo shakespeariano è costruito sulla eco della biblica cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre: quando l’amore, la perfetta linfa della vita, viene macchiato dal rifiuto, allora si trasforma in una bufera, capace di far piangere e soffrire. Un amore non corrisposto potrebbe essere inteso come il peccato originale, la cui imperfezione ha poi generato il male.
«Meraviglia dei tempi! Ma perché, dopo la tua morte, ritorna ancora il giorno? Dato che tu non ci sei più, poiché si è concluso il giro della tua vita, ecco… ecco…: io prevedo che da oggi in poi il dolore seguirà l’amore ovunque, sarà scortato dalla gelosia, avrà un preludio pieno di dolcezza e una fine amara. Non sarà mai in accordo; sarà sempre troppo forte o troppo debole, così che tutti i suoi piaceri non equivarranno mai ai suoi dolori. Sarà volubile, sarà infido, sarà ingannevole, verrà creato e verrà annientato in un istante. Farà perdere la forza ai più robusti; renderà muto l’uomo saggio e insegnerà agli sciocchi l’arte di parlare. A volte sarà furente di pazzia, a volte sarà tenero fino alla stoltezza; invecchierà il giovane, riporterà la vecchiaia all’infanzia, insegnerà passi di danza alla vecchiaia decrepita. Sarà sospettoso quando non ha motivo di temere; non temerà nulla quando invece dovrà essere cauto. Sarà perverso quando si ritiene che sia tenero; ispirerà il terrore ai valorosi, coraggio ai vili. Sarà causa di guerre, di eventi disastrosi, dividerà il padre dal figlio, sarà schiavo d’ogni capriccio, sarà sottomesso, come legno secco che brucia nelle fiamme che lo avvolgono. Poiché la morte ha distrutto il mio amore nella sua primavera, io prevedo che da ora in poi nemmeno i più caldi, nemmeno i più fedeli fra gli amanti, potranno mai più godere appieno del proprio amore.» William Shakespeare.
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Venere e Adone da William Shakespeare; regia, traduzione e adattamento di Daniele Salvo; con Gianluigi Fogacci (William Shakespeare), Melania Giglio (Venere), Riccardo Parravicini (Adone). Musiche, Patrizio Maria D’Artista. Costumi, Daniele Gelsi. Direzione tecnica, Stefano Cianfichi. Disegno luci, Umile Vainieri. Disegno audio, Daniele Patriarca. Scene, Fabiana Di Marco. Arena del Globe Theatre, Villa Borghese, fino 24 settembre
Foto di copertina: i protagonisti di «Venere e Adone» ©Marco Borrelli