Le eredità non sono mai banali

Difficile stabilire se Un’eredità di avorio e ambra sia un volume che parli della famiglia dell’autore, o se indirettamente egli voglia svelare il passato remoto di se stesso, del suo gene – il più vituperato dell’umanità – della sua memoria che si riflette in sensazioni ed emozioni ma anche in dolori e delusioni, o se sia più semplicemente «un libro su certi oggettini giapponesi». Lui, lo scrittore, si chiama Edmund de Waal ed è tra i più noti artisti della ceramica. È nato nel 1964 nella Nottigham che fu il territorio dove Robin Hood cercò di riportare giustizia tra le classi sociali. La sua contemporanea opera artistica si plasma sulla tradizione inglese che sposa l’arte orientale. Gli «oggettini» in questione, invece, si chiamano netsuke, e pur essendo pezzi d’arte originari del Sol levante non hanno nulla in comune con l’attività di Edmund. Ma De Waal è anche un apprezzato storico dell’arte, e probabilmente sia lo studio universitario che la ricerca bibliotecaria hanno fatto leva per scoprire prima l’importanza artistica dei netsuke e poi l’incredibile storia di cui erano stati protagonisti involontari.

I netsuke sono piccoli manufatti giapponesi risalenti al XVIII secolo che rappresentano perlopiù animali. La loro caratteristica è che la posizione del cervo o del topo o della scimmia o della tigre è compatta tanto che l’oggetto ha come unico scopo quello di essere stretto in un pugno senza opporre spigolosità fastidiose per trasmettere il senso della tranquillità. «Tenendolo tra le mani – scrive De Waal – non dubito che il suo autore abbia osservato la bestia dal vero»: la posizione, infatti, è sempre perfetta, gli intrecci tra coda e zampe non sono mai forzati. Sono realizzati in legno di bosso, o in castagno, oppure olmo. I più pregiati, in avorio. Alcuni hanno intarsi di ambra o di corno. I più antichi sono leggermente consumati. E quasi tutti portano la firma dell’intagliatore. «Rigirando questi netsuke fra le mani si prova piacere», confida. «C’è un ampio assortimento di topi», avverte. Sono tutti asimmetrici, delicati, piccoli e leggeri e conservano la sensazione tattile di un’epoca lontana e di una cultura a noi distante: il Giappone del 1700. Solo a questi objet, nell’Europa post napoleonica, fu concesso d’essere ribattezzati come «ninnoli». De Waal un  giorno scopre 264 netsuke in una vetrina a casa di suo zio Iggie, che vive proprio a Tokyo e con lui ne parla, durante un viaggio in Giappone, quando nel 1991 ricevette una borsa di studio. Viene così a conoscenza che quei ninnoli che lo zio gli fa stringere in pugno sono la parte tangibile del passato, ormai annientato, della sua famiglia. Una grande famiglia, un tempo assai ricca. Nel 2005 De Waal comincia a parlare agli amici dei netsuke, finché qualcuno lo esorta a scrivere un libro.

I netsuke

La nonna paterna di Edmund, Elisabeth, sorella di Iggie, è una Ephrussi, discendente di nobile schiatta d’origine ebraica; tra i primi grandi banchieri provenienti dall’Ucraina (allora una regione dell’impero dello zar), quand’erano soprattutto esportatori di grano, poi trapiantati a Odessa (ai primi dell’Ottocento), all’epoca il più grande porto commerciale dell’est europeo, poi, nella seconda metà del XIX, la famiglia si trasferì a Vienna, ma nel 1871 Léon si spinse fino a Parigi. I fratelli, entrambi banchieri diedero vita, seguendo le orme dei Rothschild, dei Camondo, dei Cernuschi (tutte famiglie ebraiche), alla colonizzazione economica dell’Europa occidentale. Gli Ephrussi erano diventati i più grandi distributori mondiali di frumento, e i forzieri delle loro banche disseminate in tutte le capitali si riempivano costantemente dei frutti ricavati dal commercio redditizio. La Terza repubblica francese e l’Impero austro-ungarico beneficiarono, e approfittarono non poco, delle risorse dei finanziatori ebrei.

I netsuke furono acquistati nella Parigi della Belle époque da Charles Ephrussi, figlio di Leon e cugino del bisnonno di Edmund, il quale, poco portato per i conti bancari, si diede al collezionismo d’arte. Dotato di grande sensibilità e passione arredò il palazzo a rue de Monceau – dove comincia la narrazione – con mobilio e oggetti preziosi e raffinati, con quadri d’autore del Cinquecento italiano, del Seicento olandese; lui, ebreo che viveva nella via definita «la strada degli ebrei», diventa amico e mecenate di un nuovo gruppo di pittori, che si chiamano Degas, Renoir, Manet, Monet, Morisot, i quali frequentano il suo salotto che si condisce settimanalmente di gelosie artistiche e simpatici pettegolezzi; ai quali assiste un giovane dandy amante della parola scritta, un acuto osservatore dei modi e dei costumi, ma anche degli atteggiamenti e delle abitudini della gente: Marcel Proust.

Il collezionismo per Charles, malvisto da coloro che disprezzavano le sue origini, diventa un motivo di riscatto, un impegno sociale, il cui fine però resta l’esclusività del suo godimento personale, l’intima soddisfazione di potersi confrontare (lui erede di un banchiere ebreo) con parte del mondo aristocratico parigino e quello artistico. Charles infatti ha un’amante, anch’essa ebrea, anch’essa nobile e appassionata al teatro, alla lirica, all’eleganza. È bionda, e «in fondo alla sua biondezza» Charles scopre «l’oro della pittura dell’Amante di Tiziano». Per Charles lo splendore dell’oro è la luce della bellezza. Ed è questo il momento in cui si viene a sapere che la coppia clandestina comincia, per puro vezzo, a maneggiare i ninnoli giapponesi, fatti di materiali sconosciuti, da accarezzare con il polpastrello lungo il rilievo per scoprirne la forma, l’equilibrio, il soggetto. Sono minuscoli gingilli portati per caso a Parigi dai mercanti d’arte che soddisfano le richieste dei ricchi collezionisti, quando il japonisme, da semplice ricercatezza per eletti, è diventato prima una moda e poi una sorta di religione, tanto da essere preso a modello sia per la decorazione, poi dalla pittura e finanche dalla musica.

Non a caso la mania per l’objet diventerà fonte d’ispirazione per Proust che nella sua opera arricchisce i personaggi di una miriade di petites rien, piccole cose che ne delineano i caratteri, i modi, gli atteggiamenti. Ogni oggetto, per l’autore della Recherche, corrisponde a una sensibilità, da cui deriva una innocenza sensoriale grazie alla quale De Waal descrive – nella limpida traduzione di Carlo Prosperi – luoghi e personalità del passato più remoto con la stessa precisione e il medesimo rigore con cui sono stati intagliati i netsuke. E il racconto della prima parte (quella parigina), man mano che progredisce, si vela della malinconia delle favole. Lo stesso  Proust che all’epoca accompagnava Charles a visitare le botteghe degli artisti pittori suoi amici, ora sembra che guidi Edmund nel dipingere le delicatezze delle atmosfere di quel mondo simile a un sogno ideale che si sublima nell’episodio dell’acquisto d’una Botte d’asperge di Manet.

Botte d’asperge, di Edouard Manet

E mentre Proust, nel costruire il suo Swann, gioca sul filo tra realtà e invenzione, Edmund si trova improvvisamente aggrovigliato nella rete tesagli direttamente dalle analogie tra il protagonista della Recherche e il suo antenato Charles.

Il 7 marzo 1899, a Vienna, Viktor (bisnonno di Edmund) si sposa con Emmy e la storia del libro si trasferisce nella capitale dell’impero, dove gli Ephrussi abitano l’immenso Palais da mille e una notte sulla Ringstrasse, secondo le indicazioni di Francesco Giuseppe che «apprezzava il valore» degli Ephrussi. Eppure, malgrado la sontuosità, l’edificio è privo di quel movimento vitale che animava l’hotel Ephrussi di rue de Monceau. All’interno gli arredi sono altrettanto magnifici, pregiati, ma conseguenza di un accumulo di roba acquistata nell’arco di quattro decenni senza badare a spese. Anche Viktor, come suo cugino Charles, era incline all’arte e allo studio più che al commercio e alle valute, ma a lui è toccato ugualmente prendere in mano le redini della banca familiare di Vienna perché Stefan, il primogenito di Ignace, già designato alla successione, fuggì improvvisamente con l’amante del padre. Grandi follie per Stefan, e grandi responsabilità, ma anche molte soddisfazioni, per Viktor.

Per il matrimonio, Charles, da Parigi, invia agli sposi, come regalo di nozze, l’intera collezione dei netsuke, compresa la vetrina. E allora si capisce che la storia raccontata da Edmund riguarda, sì, la sua famiglia, le origini, il passato, ma il filo che lega i vari capitoli dal 1871 al 2009 diventa quella collezione di ninnoli comprati in una Parigi assai spensierata, poi finiti in uno spogliatoio del Palais di Vienna (là dove Iggie bambino li osservava insieme con i suoi fratelli), sopravvissuti alla disfatta austriaca della Grande guerra, scampati al massacro del nazismo grazie all’astuzia di una domestica incapace di tradire i suoi signori ebrei, rifugiati quindi per un periodo in Inghilterra, tornati in Giappone e infine ereditati da Edmund che li ha riportati nella terra di Robin Hood. Malgrado l’abissale declino familiare, imposto dalla più spietata delle tirannie – la shoah – almeno per i netsuke giustizia sembra fatta: sono tornati in occidente come reliquie, come testimonianza di un florido passato, perché prive ormai di quel senso del futuro che avevano, quando Charles le maneggiava commentando con Proust l’ultimo dipinto della Morisot.

Oggi sulla groppa del lupo striato o sulla coda arricciata del topo non si vedono i segni delle deportazioni, delle ingiustizie, delle sconfitte, delle angosce, delle vessazioni, delle offese, delle attese, della cattiveria umana e del dolore patito da Viktor ferito dalla sensazione del fallimento per non essere riuscito a custodire un’eredità che avrebbe potuto offrire agi a molte generazioni a venire, e il festoso senso del futuro che Charles augurava al cugino viennese ha abdicato a vantaggio di una indelebile nostalgia, segno di decadenza. Eppure, come monito di speranza, l’ultima parola, quella che chiude le 379 pagine del commovente racconto di De Waal, è inizio. «Per i netsuke è un nuovo inizio», perché le eredità non sono mai banali.

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Un’eredità di avorio e ambra, di Edmund de Waal. Bollati Boringhieri editore, 2012; traduzione di Carlo Prosperi. Edizione illustrata, 2015 (pagg. 379)