Un cesso, un teschio, una porta nel vuoto, che circoscrive un visibile ed un invisibile, onirica, magrittiana, ma anche teatrino dei pupi, e porta carrolliana al mondo capovolto dell’inconscio. E un pupazzo molle, di panno, bambolina con treccine.
Una féerie, a metà tra un Sogno di una notte di mezz’estate, la crudeltà delle favole popolari, nella loro versione originale, e l’ambivalenza del linguaggio dei sogni: e dunque, inquietante e sognante al contempo; metamorfica. Non è facile dare una lettura unitaria, ma diciamo che il leitmotiv sembra essere la morte che si infiltra nella nascita, e il nascere che mostruosamente si impone, nonostante tutti i parassiti dei vissuti negativi, delle costrizioni sociali, come epifania dell’irrinunciabile imporsi della vita e dell’identità.
Per i parassiti si dà il verderame, per gli incubi il risveglio, per i tormenti l’analisi, e questi tre piani si intrecciano in Verderame (Teatro Vascello, Fringe festival – Roma, 17-18.7.2023).
L’inscenato da subito ci dissemina e delocalizza. Dobbiamo capire dove siamo, e le cose dette sono spesso inquietanti. Pur tuttavia, come nelle moralità medievali, i concetti sono in maschera, e da subito al simbolico si lega una sottile vena comica.
Il teschio – che Miranda dirà essere la sintesi delle sue tre personalità (figlia, madre nonna) – e un teschietto verderame, e potrebbe essere la caricatura comica del teschio di Yorick: essere o non essere è infatti il sottotesto, il quesito amletico che agita le protagoniste. Ricordiamoci tuttavia che il teschio in Amleto è quello di un buffone, il che non può che portare al dio assente dell’assurdo beckettiano, qui rovesciato in comica heideggeriana ‘iettatura’ attraverso la figura ‘trash’ del water. Siamo sputati nel mondo come rifiuti, come se il water al contempo ci partorisse con la violenza dello sciacquone, e ci risucchiasse nella dissolvenza della morte, in un tuffo alla Trainspotting (1996).
Maschera e corpo.
Veniamo alla grammatica attoriale.
Con questi quattro segni – teschio, water, porta, bambola – e con l’aiuto di sottolineature tramite luci e musica, Giulia Pizzimenti (sola in scena), monta con maestria una fantasmagoria di voci e figure. Fa lei tutte le voci, alternando vocione, vocina, voce, spostando, unendo, indossando teschio e water, articolandosi in posture ora acrobatiche ora gestualmente disarticolate. Le scene, che si concludono con dissolvenze al buio e climax musicali, hanno come centro il davanti della porta, e si dissolvono varcandola, per riapparire (perché la sensazione è di apparizioni) o da dietro, o dall’apertura di uno dei due sportelli – inferiore e superiore – di quella bianca soglia dell’anima, di un inquieto aldilà.
In tutto questo, nel grondare di segni ed allusioni, il filo narrativo? I temi ?
Comincia con Miranda che vive il proprio futuro parto come una invasione, e polemizza con le pubblicità del percorso pre-parto.
“No, lo yoga pre-parto no ti prego .. Oddio, i pannolini lavabili? No, avanti […]
ce la puoi fare […] io ho deciso che […] in che senso decidere […] in che senso io ? Ormai siamo un noi […] però, da sola, chi sono io ?”
Siamo un noi ? La risposta sembra essere negativa, affidata ad una voce off. Si parla di un fungo parassita che si insedia nelle piante per crescervi, uccidendole, cibandosi di loro.
Dunque ? Verderame ?
Uccidere il parassita, cioè uccidere il parto, cioè aborto, per non essere spossessate di sé dal figliare?
Non può essere così semplice, e allora, alzandosi in verticale sul water, come per un sognante equilibrio sul negativo, parla di un sogno ricorrente. Di un corridoio, di una porta verso cui fugge senza successo. Solo quando infila la testa nel cesso, si sveglia.
Il cesso come via d’uscita ? Sì, ma come percorso di formazione. Una vocina le parla da dentro il cesso, e ne tira fuori il teschio, che le dice che per essere libera dovrà affrontare le sue storie, i suoi parassiti interiori.
Il teschio sarà lei nelle sue tre identità. E così il partorire si incarna nel nascere: per partorire bisogna nascere alla coscienza di sé, discendere alle madri. Annullare quel senso di annullamento che tutte le donne vivono in una società che le vuole solo madri, e non persone. E comincia allora il rivissuto nella madre(Dora) e nella nonna (Petra), per partorire una sorellanza nel filo della propria genesi.
L’attrice esce dalla porta bianca, e rientra, con una salopette bianca e treccine azzurre, identica alla bambola di panno lenci che tiene in braccio, e a cui parla (Miranda).
Ora è Dora. La madre bambina di una figlia troppo presto venuta ? Non proprio voluta ?
E può Miranda – figlia poco voluta, e forse senza padre (i padri qui non figurano mai, come se le donne fossero piante e tutto fosse solo partenogenesi) – affrontare con questi presupposti la propria gravidanza?
Il dialogo di Dora con la figlia è di odio e amore, di senso di inadeguatezza e propositi di redenzione. La chiama funghetto ( ma si ricordi che il fungo qui è il parassita che cresce nella pianta, distruggendola), e spera in un incontro non più madre-figlia. Parla di uno sguardo che la obbliga alla resa, ma anche della maternità che spezza le ossa, e ha scatti di rabbia. Poi le racconta una inquietante favola
“ … voglio solo stare da sola. Soltanto un poco. […] te la mettono fra le braccia e ti dicono ecco, vai, sei madre. […] Sta zitta, Miranda !! […] E questa persona ti ama, e te lo ripete di continuo […] abbracciami mamma ti amo […] vuoi sentire una storia, amore mio? La storia dei fiori più azzurri del mondo. La favola del fiore di segale cornuta”.
La favola del fiore nel cimitero, insidiato da un fungo che lo uccide. Miranda come escrescenza, come parassita che cresce in te uccidendoti? E da qui, repentino, uno scatto di rabbia, e l’immersione in un cupo flash back
“Mi devo liberare di te, Miranda. Busso alla porta della casa nel bosco dietro al cimitero. Ci vive una donna strana […] che conosce le erbe e parla con i funghi”
La donna è Petra, che non si capisce se sia solo una mammana, o anche la madre di Dora, la nonna di Miranda. Le dice di mangiare i semini neri. Tre per abortire, due per partorire. Ma è chiaro che in realtà si tratta di parto, benché clandestino.
“Ti sdraierai e chiuderai gli occhi. Respirerai. Metti in bocca quel panno, se non vuoi tranciarti di netto la lingua. Urla, se devi urlare, e prega. Il Diavolo, la Madonna, o Barbablù… Tu pregali. Chi più prega più ama.”
Miranda nasce, ma deve ancora nascere nell’accettazione della madre, e il testo e le azioni prolungano l’ambiguità
“La regola… Le mamme cantano le ninne nanne […] Questa bimba a chi la do
Io la do ad un’altra donna che se la mette sotto la gonna […] Perché sei così bella?
Te l’avevo detto io. Non nascere, ti prego. […] Non voglio vederti”
tanto che Dora lascia cadere la bambola-figlia nel cesso, e se ne va.
E’ un brutto sogno. Miranda vuole svegliarsi… Sono un sogno, un fungo, sono morta? Ma deve aspettare.
Ora l’attrice si fa epifania della nonna (Petra).
Il paese (voce off) mormora di una bambina venuta da lontano, e che non si sa di chi sia, ma Petra costruisce un cerchio sacro con sassolini, attorno alla porta. Dunque Miranda è stata data via, data a Petra ? Nonna madre adottiva? Costruisce a terra tre spazi: il paese col pane, il cimitero col cesso capovolto, e il bosco con il sale. Il paese viene narrato come lo spazio del grigiore e dell’omologazione, di un dio senza volto che semina solo morte. Chi è diverso deve morire. Ma anche il bosco è ambiguo, regno della civetta. Nel cimitero è la casa di Petra, fatta di foglie e di denti. Ci abitava lo zio, guardiano dei morti e fabbricatore del verderame. Petra non ha madre, era sua, dello zio, e ora abita nel bosco, per sfuggire meglio a quelli del paese. Lì fa partorire gli altri, cura malattie, ma sembra partorire anche lei
“due occhi uguali ai miei […] Il suo corpo è orribile. Una bestia. Sale dal mio fondo
un urlo roco. Cosa è? Chi è? Di chi è? […] Che animale cresce dentro di me? […]
La tiro fuori un mattino sulla riva del mare. Guardo l’animale e vedo una bambina.
Dora. Mia. La mia. Io tu. […] Non ho mai visto due occhi così uguali a due occhi”
Ancora una volta, parto maledetto. Forse è stato lo zio ? E comunque anche Dora sembra orfana, fuori sempre dal capanno della madre, madre poi forse linciata dai paesani
“Perché urlano strega mamma? Che cosa fanno? Mamma dove ti portano?”
Dunque ?
Tutte maternità solitarie, maledette, e figlie rifiutate, buttate nel cesso ? Comunque sia l’attrice ora compare, neutra, col teschio davanti al volto, e mentre una musica ossessiva e voci distorte martellano, con climax crescente per volume e velocità delle azioni, butta ripetutamente la bambola nel cesso – bambola simbolo di tutte le figlie rifiutate.
Poi se ne va, e riappare col cesso in testa. Sveglia ! Era solo un sogno. E svanisce dietro la porta.
Il finale è lieve. Nel riquadro superiore della porta, stile teatro delle marionette, appaiono il teschio e la bambola, e parlano. Tutto qui ?
Sono nata ? Sì… Nessuno muore. Posso iniziare a camminare, e camminerò. E se voi mi guardaste, non vedreste niente.
E perché, diremmo noi ?
Perché lo spettacolo dice e disdice, per chi vuole e non vuol vedere, e la mostruosità che nella maternità si annida, come violenza e richiesta d’amore, come vita e morte in lotta, solo apparentemente è esorcizzata tra le pieghe dell’obliquo favoleggiare.
Del resto, va notato, che la catena è madri-figlie. Non solo sono assenti i padri, ma manco vediamo figli maschi. Si adombra dunque sì un istinto omicida delle madri, ma anche il feroce conflitto che oppone la figlia femmina alla madre – come insegna la psicanalisi – in modo assai più feroce che nell’Edipo al maschile.
E si rimane un po’ rapiti e un po’ interdetti. E lo spettacolo lascia a pensare.
Verderame – Testo e regia – Giulia Pizzimenti e Francesca Miranda Rossi – Con – Giulia Pizzimenti Sound design – Chiara Todeschi – Video – Leonardo Vincenzetti – Teatro Vascello 17 luglio 2023