A onde dal buio

“Così arrivai circa a 50, forse 70 .. Ma tanto i numeri li dimentichiamo sempre .

La matematica si scorda sempre .. nessuno si ricorda i numeri , le date … nessuno si ricorda niente  Nessuno mi si ricorda .. i numeri .. le date .. nessuno si ricorda niente  Nessuno sa .. Tanto nessuno si ricorda un cazzo di niente ..”

Così si esprime raccontando di sé, per giustificarsi, la ‘pantera nera’, al secolo Celeste Di Porto, quando ricorda la sua esperienza di delatrice in seguito al rastrellamento al ghetto romano. Una frase rabbiosa che vuol nascondere, sminuire, ma che contiene tutto il senso dello spettacolo. Non dimenticare, ma soprattutto non dimenticare quel momento paradigmatico del male in cui le persone erano solo numeri. Non dimenticare le date, non numeri ma epifanie del male. Non dimenticare che non è uguale 50 mele o 50 morti. La banalità del male, che tutto riduce a numero.

Così, a onde, secondo un tempo lineare, riemerge dal buio la storia del male. La vediamo mentre accade, fino a un culmine, poi sempre più diventa racconto e memoria, recriminazione e disperazione.

Emerge dal buio in più sensi. Dal buio della dimenticanza, prima di tutto. Ma soprattutto dal buio interiore della protagonista, dal suo tormento e dal buio del male, in cui cammina come cieca, torcendosi e non volendo vedere. E poi, emerge dal buio registicamente. Infatti, se Celeste – una intensa Francesca Borriero – è sempre al centro, i personaggi maschili 

(più numerosi dei due che li incarnano) si stagliano su un tutto nero, ed avanzano e retrocedono a onde, a seconda dell’episodio in scena. 

Solo lievi scansioni musicali (prevalentemente canzoni anni ’30, straniatamente e ironicamente sentimentali), e sottolineature luminose.

In scena solo una sedia, e a destra, dal vivo, un chitarrista con console.

La ‘pantera nera’. Una storia all’epoca leggendaria.

Diciottenne, bella, sensuale, pericolosa. Celeste di nome e nera di fatto. Celeste Di Porto, ma porto di nessuna salvezza. Per salvare la famiglia indica ai nazisti gli Ebrei, e dopo che il padre si consegna per vergogna ai tedeschi (e quindi deportazione e morte), e dopo che per un errore il fratello Angelo finisce nelle liste delle Fosse Ardeatine, perde ogni freno. I numeri delle delazioni ora giganteggiano, come in un furore, e non risparmia vecchi né bambini. Finita la guerra verrà processata ma, salvata dal linciaggio, subirà una pena lieve, accorciata dall’amnistia. 

E dunque ? Obblio ? 

Non è così semplice, e l’uscita dal carcere si trasforma – così come lo spettacolo ce la dipinge – in deserto degli affetti (la famiglia la rinnega) e dell’identità. 

“Non voglio più sentire parlare di quella cella, di Celeste, della Pantera nera .. non voglio sentir parlare di niente né di nessuno. Io .. non esisto più!!   Io .. non esisto più!!   più niente ricordo! Manco come mi chiamo! .. come mi chiamavano.. chi sono, da dove vengo, che ho fatto”

La regia di Pisano è suggestiva sul piano visivo, gestuale e della dinamica, e non a caso ha ricevuto il Premio Fersen 2023, traghettando lo spettacolo alla selezione del Fringe Festival (‘Celeste’, teatro Vascello, Roma 11-12.7.2023).

Luci e ombre invece secondo me stanno nel testo, e di conseguenza si riflettono nel registro recitativo, soprattutto della pur abile protagonista.

Le ricostruzioni delle motivazioni oscillano infatti tra un disperato e precoce pessimismo esistenziale – sfiducia negli uomini, ma anche disprezzo per gli Ebrei, che scappano da sé stessi – e fantasie da ragazzetta, che sembrano quelle di oggi: non le interessa la politica, non sa stare senza la musica, in un’altra epoca sarebbe stata come Cleopatra. Di conseguenza anche il registro vocale dell’attrice va a sbalzi. Vira sì – pian piano – verso rabbia, tristezza, smarrimento, disperazione e negazione. Ed è brava. Ma troppo spesso ritorna ad una voce infantile, da bambina superficiale e capricciosa.

Comunque ci sta. 

Perché la sua è proprio una immaginata anabasi dalla negazione alla coscienza, e mai perfettamente riuscita. Negazione, illusione, falsa coscienza. Spera, vendendo i correligionari, di salvare la famiglia, e fare soldi per fuggire.. Ma sogna anche irrealisticamente che la relazione col colonnello Kappler sia vero amore.

“Ti piaccio? Mi ami solo per quello che faccio? […]  è che a volte ho paura che non mi ami  […]  Non so se mi ami per quella che sono o per quello che faccio […]  E quando saranno finiti gli Ebrei? E ci sarò solo io .. che farai? Mi amerai? “

A questo proposito, però … 

Alla protagonista si possono concedere tutte le altalene e ingenuità possibili dell’età e della costrizione: non vuole il martirio, vuole sopravvivere, anzi vivere, mentre la morte le cammina accanto.

Francamente irricevibile invece è il nazista che parla con lei in romanesco, e che si giustifica delle retate e della violenza antisemita con una ingenuità da borgataro.

“Manco ce lo so perchè .. so solo che ve dovemo odià. Ci insegnano così. Ce lo dicono di giorno di notte. Noi ve dovemo odià !  E noi questo famo .. Ve odiamo, e vi ammazziamo Perché questa è la legge mo .. No? Questo il mondo ci chiede .. E chi semo noi per non seguire le leggi? Non semo nessuno .. Semo l’ultima merda .. il futuro? Non ci pensiamo Ok? Tanto il futuro è solo una bugia“

Non è del resto colpa dell’attore (Claudio Boschi), in altri momenti convincente, così come intenso è l’attore che porta in scena – oniricamente, in un immaginario dialogo con Celeste – la disperazione del padre, la sua vergogna, in un crescendo vocale accorato, ed iterativo, culminante con la bella idea gestuale di alcuni violenti colpi di frusta sulla sedia vuota. 

E a proposito di iterazione, è questa un’altra cifra ricorrente dello spettacolo, ed efficace. Ossessivamente ritorna – all’inizio di quasi tutti i quadri, e poi alla fine, a spezzare continuamente le parole di lei – ritorna, come senso di colpa, questa frase

             “Sono Anticoli Lazzaro, detto Bucefalo, pugilatore. Si non arivedo la famija mi 

               è colpa de quella venduta de Celeste Di Porto. Rivendicatemi”

Questa frase presente sul muro della cella N 306 – la stessa in cui per qualche giorno sarà rinchiusa anche Celeste poi, a Regina Cieli – vi era stata incisa da quello da lei denunciato perché andasse a sostituire il fratello Angelo, nella lista delle Fosse Ardeatine.

Allo stesso modo – con feroce ironia – quando lei parla con turbamento del numero delle vittime delle Fosse Ardeatine, alle sue parole viene continuamente intercalata, ossessivamente, a marcetta allegra, la canzone ‘Maramao perché sei morto?’.

Le musiche e le canzoni sono infatti sempre in controcanto. 

Così, alla fine della guerra, mentre lei corre disperata intorno alla sedia, dal buio avanzano e defluiscono e riavanzano, ad onde, i due attori in nero, salutando palesemente, a mimare le note riecheggianti a lungo di ‘Bella ciao’.

Salutano ironicamente lei?

Come dicevo, onde dal buio .. micro onde e macro onde.

Una operazione interessante, tra memoria e fantasia.

Celeste – Compagnia Libera Imago (Napoli) – Testo e regia – Fabio Pisano – Con – Francesca Borriero, Roberto Ingenito, Claudio Boschi – Costumi – Rosario Martone – Disegno luci Paco Summonte -Suggestioni sonore live Francesco Santagata

Fringe festival – Teatro Vascello 12.7.2023

Vincitore del Premio Fersen 2023 alla regia