Abbiamo passato così tanto tempo a chiederci cosa fosse ‘umano’ e cosa, oltre le nostre vane e abissali speranze fosse, ancora, utile a nutrire il nostro senso di umanità; cosa, ancora, nel bestiale agitarsi dell’ira e della vendetta di Medea fosse salvabile, perdonabile, comprensibile. Ma tutto di questo nostro modo di agire e vedere le cose non fa che dipendere ancora da quell’idea, a cui noi ci aggrappiamo, secondo cui l’umanità coinciderebbe con la razionalità; mentre la verità che ci è tragicamente scoperchiata è qui altrove.
Come una “alata letizia sopra gli abissi”, nella “Medea” di Euripide al Teatro Greco di Siracusa per la regia di Federico Tiezzi, sotto i nostri occhi, Laura Marinoni non interpreta semplicemente Medea, non ne veste semplicemente i panni, no, Laura Marinoni si consacra a Medea. E lo fa con la maestria, l’eleganza, la pulizia di chi conosce ogni lastra di quel palco, ogni insenatura dell’animo di una donna che, sola, appare capace di confrontarsi con l’ultramondano. Ci colpisce il suo sguardo incorniciato da una massa di capelli nero corvino, quel suo modo di agirarsi tra le mura di un palazzo non più suo con fare inquieto e, nondimeno, risoluto.
La regia di Federico Tiezzi sceglie attraverso l’uso delle maschere, come è stato già solito fare in passato, di identificare il personaggio di Medea, al pari degli altri, con una sorta di ‘animale totem’, capace di manifestare al pubblico – immediatamente e senza alcuna necessità di mediazione razionale – la chiave di volta del personaggio, la sua essenza. Rapace e, al contempo, di acuta e raffinata intelligenza, la Medea di Laura Marinoni è, quindi, identificata con questo enigmatico uccello dal piumaggio nero-blu e dallo sguardo penetrante. Questa è una Medea che vive tra le cose terrene con fatica e passione, perché alimentata da un perfetto connubio di sapienza attoriale e carisma, in cui l’equilibrio tra forma e contenuto è pienamente realizzato e restituito con potenza.
Un primo tassello di humanitas sta già qui. Prima ancora di scoprire le direttrici che guidano il complesso disegno registico di Federico Tiezzi, che – è bene dirlo fin d’ora – compie un cortocircuito lacerante tra tragedia e dramma borghese – l’humanitas di Medea si dà al pubblico in una chiave di irrazionale consacrazione all’Altro.
Consacrazione resa visibile da quello stato critico e rischioso dell’esistenza – che appare tanto più evidente quanto più ci si avvicina al ricongiungimento finale di Medea con Apollo – per cui non è tanto e non solo il razionale ad abdicare all’irrazionale in Medea, quanto l’urgenza della scelta a rendersi necessaria, come necessaria rimane l’ambiguità tra queste due dimensioni del fare e del pensare umano.
Un senso profondo di gravità, in cui amore e morte risultano effettivamente inscindibili alla luce della regia di Federico Tiezzi, che da subito ci segnala lo sfondamento del tragico in direzione del dramma, già mediante le scene che ci accolgono presso il Teatro Greco di Siracusa. Una gabbia bianca, priva di nascondimenti e pareti, che rievoca la nevrosi contemporanea per il valore della trasparenza, al cui centro sta un grande, immenso tavolo nero, giustapposto a separare le parti, a dilatare la tensione di un gioco al massacro in cui è Eros a regnare.
Oltre l’humanitas di Medea c’è però il volto cupo e raggelante dell’amato Giasone. Alessandro Averone è la modernità, Alessandro Averone è il Giasone per Federico Tiezzi, e per tutte quelle regie che non limitano il loro confronto con la tragedia a uno studio archeologico fine a se stesso. Dell’interpretazione di Alessandro Averone colpisce poi quel suo modo così raro e prezioso di conoscere il personaggio, di voler strappare Giasone a una troppo facile e immediata lettura, fino al punto di farne – con la sua interpretazione complessa e straziante – qualcosa di veramente nuovo.
In questo Giasone non c’è semplicemente l’abito del borghese, dell’uomo contemporaneo che mal cela la sconfinata e ambiziosa sete di potere; bensì c’è un tempo presente che non si ricongiungerà mai con quello passato e originario in cui agisce Medea. Il conflitto è, dunque, prima di tutto qui, nell’evento di un incontro impossibile, al cui centro più che un semplice amore sta la minaccia perpetrata nei confronti della propria identità.
Per chi rimane affezionato a quell’idea per cui umanità, razionalità e, perché no, bontà coinciderebbero necessariamente tra loro non può darsi alcun tipo di mediazione al conflitto lacerante che anima la tragedia. Tutto si risolve ibsenianamente nel sangue. Tutto rimane macchiato, macbethianamente, come le pedane bianche in scena, dell’atrocità del gesto compiuto da Medea. Eppure, forse, c’è ancora dell’altro da indagare nel grido straziante di fronte alla verità di questo Giasone che tanto radicalmente è messo in scena da Alessandro Averone, perseguitato da un’ombra, un’aura oscura, che lo attraversa come una malattia cronica da cui non riesce a guarire.
Un coro di voci – che, seppure visivamente, col suo bianco asettico e a tratti monacale, non rappresenta la scelta registica più riuscita dello spettacolo – è chiamato quindi a mediare tra queste parti in conflitto. Una mediazione che affonda le sue radici nel paradigma antico, anche se sempre in sintonia con la modernità del registro di Tiezzi e che, per dirla con l’Aristotele della Poetica, ha molto più a che vedere con il ‘sillogizzare’, ovvero con il pensiero, che non con la pura emotività.
Lì dove il reale bussa alle porte della finzione, lì dove l’atto estremo della violenza dovrebbe darsi e invece – quasi ontologicamente – si ritrae nella tragedia, ecco, proprio lì, vediamo apparire un cortocircuito registico tanto efficace da compiere una lacerazione del tragico.
Se è vero, come scrive Ingeborg Bachmann, che Umanità è “saper mantenere le distanze”, allora non si può negare che in questa “Medea” sia all’opera l’assunto antico per cui la tragedia deve essere fruita con una certa distanza per poterne trarre veramente l’insegnamento sperato ma anche, in qualche modo, il suo opposto. La centratura dei personaggi – e non soltanto di quelli già citati, ma anche del fosco Creonte di Roberto Latini, del cechoviano Egeo di Luigi Tabita e dell’energica Sandra Toffolatti nei panni del Nunzio – da parte degli stessi interpreti è tale per cui lo spettatore sprofonda suo malgrado e contro la sua volontà nel mito.
I giorni e le ore tra noi che abbiamo visto e ciò che è stato sulla scena sono quindi necessari, una distanza umana contro la logica spietata della velocità e del progresso a tutti i costi, per ritornare a guardare con lucidità a “Medea” senza che il ricordo di quest’ultima possa essere in alcun modo intaccato.
MEDEA – INDA (Teatro Greco di Siracusa)
Opera di | Euripide
Regia | Federico Tiezzi
Traduzione | Massimo Fusillo
Scenografo | Marco Rossi
Costumista | Giovanna Buzzi
Disegno luci | Gianni Pollini
Maestro del coro | Francesca Della Monica
Arrangiatore coro e voci | Ernani Maletta
Regista assistente | Giovanni Scandella
Musiche originali del prologo | Silvia Colasanti
(eseguite dal coro di voci bianche e orchestra del Teatro dell’Opera di Roma, diretti da Giuseppe Sabbatini e da Carlo Donadio)
Assistente scenografo | Francesca Sgariboldi
Assistente costumista | Ambra Schumacher
Direttore di scena | Nanni Ragusa
Assistente direttore di scena | Dario Castro
Assistenti arrangiamenti coro e voci | William Caruso
NUTRICE | Debora Zuin
PEDAGOGO | Riccardo Livermore
MEDEA | Laura Marinoni
CREONTE|Roberto Latini
GIASONE | Alessandro Averone
EGEO | Luigi Tabita
IL NUNZIO | Sandra Toffolatti
PRIMA CORIFEA |Francesca CiocchettiPRIMA COREUTA | Simonetta Cartia
CORO | Alessandra Gigli, Dario Guidi, Anna Charlotte Barbera, Valentina Corrao, Valentina Elia, Caterina Fontana, Francesca Gabucci, Irene Mori, Aurora Miriam Scala, Maddalena Serratore, Giulia Valentini, Claudia Zappia
RESPONSABILE CORO | Simonetta Cartia
FIGLI DI MEDEA |Matteo Paguni, Francesco Cutale
Con la partecipazione degli allievi e delle allieve dell’Accademia d’Arte del Dramma Antico