La sinossi dello spettacolo (ieri l’ultima replica), oltre ad avvertire che si sarebbe assistito alla rappresentazione di due racconti sulla condizione umana, informa: «Due performances, due dispositivi drammaturgici, due narrazioni sempre in bilico tra azione e testo, mescolando danza, teatro fisico, letteratura e paesaggi sonori. Due performances che proseguono la ricerca/sperimentazione performativa e drammaturgica di Margine Operativo di connessione tra testo-parola, azione-movimento, e suono-spazi. Un percorso di elaborazione poetica, intorno ad alcuni nuclei della contemporaneità.»
Mi assumo la responsabilità della mia ignoranza, ma non capisco quel che vuol dire questa avvertenza riferita a un palcoscenico, al teatro, alla drammaturgia, alla recitazione. Per la verità ultimamente ho imparato, per prudenza, a diffidare di tutto ciò che è «performativo». Se nei quattro tomi della «Storia del teatro» di Silvio D’Amico questa parola non appare mai, evidentemente, in quasi tre millenni di teatro che l’umanità ha partorito sin dalle prime rappresentazioni dei Misteri, non se n’è mai sentita la necessità. Solo da qualche anno il performativo è diventato una forma teatrale che in realtà forma non ha. Oppure io non riesco a vederla.
Mi chiedo, e anche con una certa curiosità: è performativo mettersi al centro della scena a testa in giù? è performativo saltellare per cinque minuti abbondanti senza dir nulla e senza mimare nulla? è performativo ripetere parole senza intonazioni e senza un’adeguata dizione? è performativo togliere le sillabi finali ad ogni parola?
Frequento il teatro da oltre quarant’anni, e quando vidi il primo spettacolo di Bob Wilson rimasi perplesso ma affascinato, e quel fascino che pur avevo trattenuto si dischiuse in me dopo qualche giorno e illuminò una strada che il teatro classico non mi aveva ancora mostrato; e, ancor più indietro nel tempo, rimasi incantato dalla festa di fiori di Lindsay Kemp, espressione viva dei colori di un mondo fantastico; e poi incontrai il Tanztheater di Pina Bausch che fece della danza un monologo corale sulla fragilità dell’anima. Sono state tutte innovazioni di una sola forma teatrale: lo spettacolo, ossia rappresentazione di uno stato d’animo, eseguito con movimento, gestualità, entusiasmo intellettuale.
In questo caso, confermando ancora la totale responsabilità sulla mia probabile ignoranza, tra parole smozzicate e un costante sottofondo sonoro quasi sempre uguale, tra una recitazione inesistente su una drammaturgia altrettanto vana e un movimento un po’ troppo libero da impegni, io, spettatore comune, non sono riuscito a comprendere la «connessione tra testo-parola, azione-movimento, e suono-spazi». Insomma, se si viene a teatro, bisogna uscirne con una sensazione. Invece, dopo appena trentasette minuti di «sperimentazione performativa» di due libri che analizzano la triste condizione umana, sono uscito dicendo «meno male che è stata una toccata e fuga!»
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Animali + Memorie dal sottosuolo, dal romanzo «Anima» di Wajdi Mouawad e dalle «Memorie del sottosuolo» di Fiodor Dostoevskij. Ideazione Pako Graziani e Alessandra Ferraro, regia Pako Graziani, performer Yoris Petrillo, sound designer Dario Salvagnini, light designer Marco Guarrera, produzione Margine Operativo.
Foto in evidenza: Animali + Memorie dal sottosuolo