Il teatro è un momento di riflessione sulla strada della vita, l’acquario che contiene l’oceano, è un dipinto che racconta il colore oltre le pennellate. Assi di legno risuonano di passi. Ognuno pesa quanto la storia che contribuisce a creare. E i dialoghi sciolgono i nodi di storie che si fanno “storia”.
È quanto accade al teatro Manzoni di Roma ove, dal 18 maggio al 4 giugno, è in scena Preferirei di No, testo di Antonia Brancati e produzione del Centro Teatrale Artigiano di Pietro Longhi, con Ivana Monti e Maria Cristina Gionta, regia di Silvio Giordani; al sax Vittorio Cuculo.
In un bell’allestimento scenico, ricco di particolari evocativi, si svolge il confronto tra una madre e una figlia. Oggigiorno i confronti sembrano agonizzare. Alcuni si rendono protagonisti di contestazioni urlate tradotte in slogan, incapaci di un dibattito serio e pacato. Il confronto, invece, è vita, perché produce sempre qualcosa che è altro rispetto a chi lo mette in atto. Nel confronto si cambia. E, sotto questo profilo, Preferirei di No è una commedia del cambiamento.
Non si tratta di un confronto generazionale, bensì puramente emotivo, di quelle emozioni che ti graffiano l’anima e che chiamano in causa il sesto senso, inteso come capacità istintiva di orientarsi nelle diverse situazioni della vita. Il teatro ne è spesso cornice. Il personaggio è chiamato a cercare la propria strada. Lo fa da solo, lo fa con l’aiuto di qualcuno, ma l’inerzia non è contemplata in scena. Amleto ha il fantasma del padre e Faust Mefistofele. Guide che nell’uomo pirandelliano si parcellizzano in frammenti del sé, in alter ego. O, forse, lo sono sempre, in ogni caso, direbbe Freud, re danese e demonio compresi. È drammaturgicamente essenziale il cammino personale verso qualcosa, foss’anche l’assenza di qualcosa. Il dramma non ricade sui fatti, ma viene interiorizzato.
Fondamentale, in tutto ciò, il ruolo dell’attore. E Ivana Monti si conferma un’attrice straordinaria. Ha una grande padronanza scenica e porta sul palco uno stile fortemente modulato, fatto di parole che racchiudono gesti a seconda dell’intonazione, della pausa, dell’assottigliamento della voce, o della sua profondità. Offre sia un’intensa interpretazione, che racconta il personaggio, sia un’energica recitazione, che sottolinea la poetica del testo, oggi spesso messa da parte. Il grande Eligio Possenti diceva che c’è una ritualità antica nel gesto teatrale: richiama la magia degli elementi. Una sorta di cerimonia religiosa con una forte componente ludica. Gioco e sacralità: il gesto racconta, la parola commuove. È un mondo reale, nel quale si narra l’irrealtà, o, forse, la realtà nascosta in ognuno di noi. Ivana Monti conosce quel rito, conosce quel gioco.
«Già. Conta anche per me». Una battuta disseminata nel testo, ma con la Monti diventa emblema di come una pausa possa recitare, di quanto quattro parole possano raccontare l’intera storia. Ed è solo un esempio tra tanti. Il suo corpo si fonde con quello del personaggio per sublimare le sensazioni dell’uno e dell’altro. Due vite in una. Il suo è un teatro mai banale e, come Fred Astaire quando improvvisa un passo a due con una scopa, riesce a far parlare anche gli oggetti che disegnano il suo personaggio: i lenzuoli puliti da piegare, la torta, la scatola di foto … Lei sta in scena come un dipinto d’autore, che ha sempre tanto da dire anche solo con una pennellata, con una sfumatura di colore.
Non da meno la Gionta, sebbene Diana, il suo personaggio, sia un po’ più semplice. Lo è sempre l’inconsapevolezza. Lei interpreta una donna che sembra avere tutto chiaro, con una via tracciata, una vita luminosa: niente temporali, niente candele, niente telefoni rotti e, soprattutto, tacchi a spillo. I tacchi a spillo richiedono strade apparentemente sicure.
Ma se Teresa è l’idealismo, forse anche Diana lo è. E due differenti idealismi non possono che portare l’incontro allo scontro.
Il testo della Brancati commuove. La trama contiene l’elaborazione di problemi e una catena d’amore e rancore; sul fondo, la morale di una politica che con la morale ha poco da spartire. È una danza di parole che riempie tutti gli spazi. Guai a non dar peso ad ognuna di esse. Ivana Monti e Maria Cristina Gionta seguono bene il ritmo. Stanno nelle parole e aiutano il pubblico a seguirle, componendo il puzzle della storia. «Si può recitare bene o male, poco importa; l’importante è recitare nel senso giusto» afferma Scèpkin, il fondatore del realismo scenico russo. E qui si recita bene e nel senso giusto. Due donne in maschera intorno allo stesso uomo. Una madre, che si maschera per non assomigliare a quello che era e che il marito vorrebbe che fosse ancora … «[..] forse è solo per il male che attraverso di lui mi sono fatta». Una figlia, che si maschera per cercare di essere diversa dalla madre e compiacere quello stesso uomo, suo padre, non rendendosi conto che, così facendo, si appalesa identica alla prima versione di sua madre, che è proprio ciò che rifiuta. Nel mezzo ci sono, per Teresa, due anni di manicomio, che coincidono con una presa di coscienza brutale, violenta, apparentemente assurda. E la saggezza nell’essere finalmente come si vuole essere spezza la catena dei doveri sociali.
«En paradis qu’ai je a faire? Je n’I quier entrer» (In paradiso cosa devo fare? Non voglio entrarci) dichiara Aucussin in una ballata medievale di cui è protagonista (Aucussin et Nicolette). Egli dichiara di preferire l’inferno con Nicolette piuttosto che il paradiso senza di lei. Ebbene, Teresa Fusi, il personaggio interpretato da Ivana Monti, al pari di Aucussin, “sceglie” il suo paradiso, quand’anche abbia per nome “inferno”; si costruisce una vita che ama e in cui si muove bene, in cui riesce ad arginare la predisposizione all’angoscia esistenziale, allo spleen che la attanaglia.
Il dramma teatrale, del resto, è dannazione e redenzione al contempo, attraverso la determinazione del proprio destino. Il personaggio è sempre santo anche quando rifiuta il paradiso; è santo per il solo fatto di manifestare il proprio pensiero e i propri sentimenti.
Ivana Monti, nel 2006, portò in scena un’importante lettura: Mia cara madre. Ricordi e voci della nostra terra, da lei stessa scritto. L’incipit merita attenzione, perché ha un invisibile filo sottile che lo lega a questo ruolo, a questo personaggio uscito dalla penna della Brancati: «Cavola di Toano. Reggio Emilia. Maggio 1936. Mia cara madre, la mia bambina è morta. La mia bambina. Ma sia fatta la sua volontà. La ferita è troppo profonda. Ho bisogno di non pensare. Ho bisogno di faticare».
Ritirarsi dal mondo ha sempre qualcosa a che fare con la voglia di non pensare, con la voglia di faticare. E Teresa, la protagonista della commedia Preferirei di No, è una donna in fuga che, tuttavia, scopre di non essere fuggita, di non aver mai smesso di pensare, di non aver cancellato se stessa nella fatica che le costa vivere, cercando di imporsi “ordine”.
Peccato che, nell’intervenire sul testo in occasione di questa messa in scena, sia stata eliminata una parte secondo me importante, quella che riguarda un uomo, il terzo che entra nella storia. Il dialogo tra le due donne, infatti, ruota attorno alla principale figura maschile, che è marito di Teresa e padre di Diana e che rileva solo nel suo duplice ruolo, tanto che non ha un nome. È una mera proiezione dei loro disagi di donne, del loro conflitto di donne. Poi c’è Claudio Branca. Nome e cognome, come si addice ad ogni estraneo. Diventato “nemico” per il padre di Diana, è inevitabilmente amico di Teresa, trovandosi suo malgrado al centro di quel rapporto inversamente proporzionale di affetti che sempre si verifica tra due parti contrapposte. Ma c’è un altro uomo, in realtà, che nella rappresentazione non compare. Si chiama Maurizio. Solo un nome, come le persone di famiglia. È un’identità. È più vero di quanto non siano gli altri due. Un quasi-marito, ma “quasi” è la parola chiave. Maurizio incarna un punto di fuga del testo, una porta laterale che per un attimo si apre lasciando filtrare luce; spezza il loop paterno-maritale. Rappresenta l’evoluzione. Forse la rivoluzione. Il cardine che rafforza il No di Teresa.
Buona, invece, la scelta registica di inserire il suono del sax di Vittorio Cuculo; una sax che recita attraverso le note. Isn’t She Lovely? ci dice Cuculo, suonando un famoso brano di Stevie Wonder. “Non è amabile?”. Se riferito a Teresa o a Diana non è dato sapere e, anzi, forse è errato contrapporre le due donne.
Nel complesso è una pièce che ben accompagna il senso del dubbio e del conflitto. Si esce da teatro con la felicità incorrotta di chi si è trovato a riscoprire con semplicità e poesia le difficoltà dell’esistenza.
L’immenso Paolo Poli, quando gli chiesero cosa connotasse la sua vita, cosa ne rappresentasse il senso, rispose: «Il lavoro, la moralità del lavoro». Ma si rifiutò di definirlo “senso della vita” perché concetto troppo filosofico. «Nessuno chiede all’idraulico se c’è una filosofia del rubinetto. Il rubinetto deve funzionare bene, non deve gocciolare. Stessa cosa vale per l’attore».
Ecco: il senso della qualità del lavoro teatrale. Si è fatto evanescente, di questi tempi. Il talento è sottovalutato: troppa improvvisazione, troppo desiderio di portare la vita di tutti i giorni sul palcoscenico. Se il pubblico volesse questo, sarebbe sufficiente che si sedesse ad un tavolino da bar per un paio d’ore. Per fortuna c’è ancora del buon teatro, però. Testi che scendono nel profondo, che stimolano curiosità e cultura, che presentano parti poetiche. Questa commedia, così ben interpretata, ne è un esempio. Alta qualità del lavoro teatrale.
Preferirei di No
di Antonia Brancati
con Ivana Monti e Maria Cristina Gionta – regia di Silvio Giordani
musiche eseguite dal vivo da Vittorio Cuculo al sax – scene di Mario Amodio
luci di Marco Macrini – costumi di Lucia Mariani
Prodotto dal Centro Teatrale Artigiano di Pietro Longhi
Al Teatro Manzoni fino al 4 giugno