Per Douglas Sirk: la nera muore, la bianca si sposa!

Buona regola di ogni recensione è che sia sempre indipendente da altre critiche scritte in precedenza. Il consiglio, appreso molti anni orsono, giungeva dai giornalisti della carta stampata e della vecchia macchina da scrivere, i quali, per evitare al lettore la delusione di non poter risalire alla fonte indicata (erano troppo pochi coloro che conservavano le copie arretrate di un giornale), seguivano rigorosamente l’insegnamento. Tuttavia, oggi, con l’aiuto tecnologico, è semplice andare a ritrovare l’articolo di riferimento: così, trattandosi del remake di un film recensito per questa stessa testata il 13 maggio scorso, penso che un’eccezione si possa ammettere. Per chi volesse leggere anche l’altro: https://quartapareteroma.it/la-drammatica-indipendenza-bianca-di-peola/

La recensione iniziava così: «Quando, nel 1933, fu pubblicato il romanzo di Fanny Hurst, Imitation of life, il codice Hays ancora non era diventato legge effettiva; entrò in vigore meno di un anno dopo, a film quasi ultimato». La prima pellicola firmata da John M. Stahl è del 1934, questa di Douglas Sirk del 1959, quando ormai i divieti imposti dalla censura erano stati ben assimilati sia dai registi che dalle case di produzione. Tutti i film venivano girati con un intento diverso: dopo venticinque anni di obbedienza alle regole, ognuno sapeva bene fino a che punto avrebbe potuto osare senza disturbare l’intervento della censura. Era diventata prassi mostrare una realtà edulcorata, patinata da un manierismo realistico poco graffiante.

Vien da sé che osservando il film di Sirk, si apprezza molto il coraggio di Stahl: la questione centrale intorno alla quale ruota la trama è il razzismo, in America una violenta piaga sociale sin dalla metà dell’Ottocento. Stahl trovò il modo di portare, almeno sul grande schermo, l’immagine di una riscossa per la sfortunata Delilah, inizialmente senza casa e senza lavoro. Dalle sue mani venivano fuori quei pancake che generarono, grazie all’abilità commerciale di Beatrice, ricchezza alle due famiglie, quella bianca e quella nera. Stahl, inoltre, dedica più di una inquadratura alla grande insegna pubblicitaria dei pancake con il nome e il ritratto della donna di colore. Tutto questo Sirk non lo fa; anzi, consegna ogni responsabilità economica al personaggio di Lora (la bella attrice di teatro interpretata da Lana Turner), relegando la dolcissima Annie (Juanita Moore) al ruolo di cameriera senza alcun merito pratico, se non la squisita bontà del suo carattere. Soltanto grazie agli introiti di Lora, le due donne con le loro figlie possono permettersi una vita agiata.

Juanita Moore

Insomma, mentre Sirk si diletta a passare il pennello sulle esibizioni teatrali, citando anche Tennessee Williams (oltre a un improbabile regista italiano di nome Amerigo Felluci che sta per Federico Fellini) e sui sentimentalismi tra la protagonista e il suo tenace corteggiatore (John Gavin), Stahl usa lo scalpello per lasciare il segno che darà forte senso espressivo alla scena finale: quel maestoso funerale della donna afroamericana. Le due sequenze sono quasi identiche, ma nella prima versione ci si arriva gradualmente e con coerenza. Delilah (personaggio del ’34) sa che lei è una donna speciale, e vuol dimostrare ai suoi fratelli neri che con i pancake s’è conquistata un posto di prestigio tra i bianchi, e le esequie funebri con i cavalli e la banda di quartiere sono la giusta ricompensa ai suoi sacrifici e al suo lavoro. Fatiche che tutti conoscono grazie a quell’insegna pubblicitaria che ancora illumina la strada. Il funerale di Annie (1959), invece, pur essendo altrettanto maestoso, risulta soltanto un generoso regalo di Miss Lora che esaudisce il desiderio della sua affezionata cameriera.

Questo particolare lascia assai perplessi, a causa di una triste considerazione: siamo nel 1959, e la piaga del razzismo americano avrebbe dovuto sanarsi almeno un po’ (rispetto agli anni Venti quando imperversava il Ku Klux Klan), ma invece pare evidente che la ferita si sia infettata di un male ancora più acuto. Quattro anni più tardi, infatti, ci sarà il famoso discorso di Martin Luther King, «I have a dream», per la conquista dei diritti civili della popolazione afroamericana. Sembra che Sirk abbia avuto paura di fare un torto a qualcuno se avesse osato realizzare per il cinema il riscatto sociale di Annie; o (peggio) che in quel periodo non si potesse dare alcun prestigio a una donna di colore, mentre nel 1934 l’approccio degli intellettuali con il razzismo era differente! La parità tra le diverse razze nel ’59 ancora non era ammessa, la condivisione della mensa pure era impensabile, e «Indovina chi viene a cena», arriverà soltanto nel 1967.

Susan Kohner e Sandra Dee

Con questo film, Sirk si trovò di fronte a una realtà che aveva già vissuto in Germania, suo paese natio, da dove fu costretto a fuggire nel 1937 perché sposato con una donna ebrea. Dopo Imitation of life abbandonò il cinema. Perché? Soltanto per stanchezza? All’epoca aveva 62 anni. Deluso, forse, per non essere riuscito a regalare alla reietta Annie un’altra vita? Non lo sappiamo. Restano domande senza risposte.

Finora abbiamo parlato, in effetti, solo delle madri che comunque hanno entrambe un complicato rapporto con le rispettive figlie che crescono e cercano l’indipendenza. Mentre Sarah Jane (Susan Kohner) vive con angoscia, fino al termine, la sua condizione di figlia bianca di madre nera dalla quale vuol fuggire, Susie (Sandra Dee) risolve con maturità l’imbarazzo per essersi innamorata dell’uomo di sua mamma. A tal proposito sono da elogiare due scene, in cui Douglas Sirk, appunto, pennella con grazia i differenti caratteri delle ragazze: l’una che, al momento dell’addio, strozzando in gola la parola «Mom» che non vorrebbe nemmeno pronunciare, infligge l’ultimo dolore ad Annie, la quale morirà di crepacuore; e l’altra che invece, con la decisione di partire lontano, offre alla sua genitrice l’opportunità di sposarsi.

La nera muore in solitudine, mentre la bianca convola a nozze. Questa la differenza. Questa la realtà americana del 1959.

Una curiosità: durante la messa funebre per Annie, Mahalia Jackson, regina del gospel, ha eseguito uno straordinario intervento canoro, talmente intenso, che nel corso delle riprese la signora Turner, seduta in prima fila, è dovuta ricorrere più volte all’aiuto del truccatore per via di una inarrestabile commozione.

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Imitation of life (Lo specchio della vita), un film di Douglas Sirk del 1959, dall’omonimo romanzo di Fannie Hurst (remake del film di John M. Stahl del 1934). Con Lana Turner (Lora Meredith), John Gavin (Steve Archer), Sandra Dee (Susie Meredith), Susan Kohner (Sarah Jane Johnson), Robert Alda (Allen Loomis), Dan O’Herlihy (David Edwards), Juanita Moore (Annie Johnson), Mahalia Jackson (Cantante al funerale). Sceneggiatura, Eleanor Griffin, Allan Scott. Costumi, Bill Thomas. Regia, Douglas Sirk. Per la rassegna «XX secolo» al cinema Quattro Fontane.

Foto in evidenza: John Gavin e Lana Turner