A cento anni dalla nascita, ricordando Giorgio Albertazzi (20 agosto 1923 – 28 maggio 2016) e Anna Proclemer (30 maggio 1923 – 25 aprile 2013)
Nel 1965, qualche mese prima che il sottoscritto venisse al mondo, presentando il Festival shakespeariano, Sir Harold Hobson, tra i massimi critici drammatici del Novecento, specializzato nei testi del Bardo, voce autorevole del Drama, pubblicò un approfondito articolo sui migliori interpreti del Principe di Danimarca da lui esaminati nel Dopoguerra. «I quattro Amleti, secondo me, più importanti – scrive Hobson – e rivelatori dei nostri giorni sono stati quelli di Gielgud, Guinness, Redgrave e David Warner. Il più grande maestro vivente del verso shakespeariano, l’unico attore che sappia esprimerne la stupenda melodia è certamente Sir John Gielgud». Il quale vestì i panni di Amleto la prima volta nel 1931 all’Old Vic di Londra, ma l’edizione che lo consacrò fu quella del 1934 (sotto la sua stessa direzione) al New Theatre nel West End, rappresentazione che riprese fino a oltre il 1950.
L’Amleto di Michael Redgrave (padre di una certa Vanessa) «era un Amleto malinconico, che – prosegue Hobson – sembrava abbandonarsi con piacere e con autocommiserazione alla propria infelicità trascendente, per raggiungere, ormai riconciliato col suo destino, un trionfo spirituale che lo rende degno dei più grandi che mai si siano veduti». E poi: «Piccola, cupa, maligna figura vestita di nero, Alec Guinness traeva da Amleto tutto ciò che era morboso e malvagio. Il suo Amleto viveva al centro di un universo perverso, nessun raggio di luce, dal cielo, lo illuminava. Per la profonda originalità, lo considero tra gli Amleti decisivi». Un caso a sé è David Warner, di soli 23 anni, un giovane assai goffo che i critici influenti, dopo la prima rappresentazione, trovarono assolutamente pessimo. In questo caso – continua Hobson – «il pubblico non seguì i critici, e arrivò anzi all’idolatria. Quando andai a vedere il suo Amleto per la terza volta, dovetti farmi strada tra code di gente che aspettava di entrare in teatro dal pomeriggio precedente. Il pubblico aveva ragione: l’Amleto di Warner è un Amleto disperato e non fortificato da nessuna fede. Warner è assolutamente in armonia con la sua epoca».
Dopo aver citato a parte l’edizione cinematografica dell’Amleto di Laurence Olivier, Hobson annuncia: «L’universalità di Amleto è dimostrata dal fatto che alcuni tra gli Amleti più memorabili non sono britannici. Tra questi ho molto apprezzato Giorgio Albertazzi. La sua bellezza fisica, la sua avvincente personalità e la sua mirabile dizione giustificano pienamente l’onore che gli era stato tributato d’impersonare l’Amleto all’Old Vic, nel quarto centenario della nascita di Shakespeare». Albertazzi stesso ricorda lo spettacolo in un’intervista del 2012: «Con Franco Zeffirelli facemmo all’Old Vic di Londra un Amleto straordinario: giudicato da Laurence Olivier il più bello di quell’anno». Era il 1964.
Amleto ha accompagnato Albertazzi per tutta la vita, forse anche più della Commedia di Dante, e sicuramente più di Adriano imperatore (arrivato molto dopo), tanto che, da noi, molti spettatori ormai anziani, identificano ancora il personaggio di Shakespeare con le sembianze di Albertazzi. E quel monologo, il più famoso monologo del teatro, che comincia con Essere o non essere, lui lo ha declamato e recitato e perfino consacrato a suo scioglilingua preferito. Ci ha aggiunto ironia, infelicità, sarcasmo, grazia, malinconia, e nel gioco delle pause riusciva a infilarci, con eleganza, anche quella spudorata derisione fiorentina. Una virtù, travestita con le ali della leggerezza, che molti altri suoi colleghi gli invidiavano.
Quest’anno, il 20 agosto, ricorre il centenario della nascita di Giorgio Albertazzi, ma siccome quel dì, molti di noi, saranno distratti dal mare e dal sole, penso sia più opportuno ricordare il grande attore di Fiesole nel mese delle rose. E il motivo c’è. I destini delle persone, infatti, anche quando non ci sono più, spesso si incrociano in un gioco di numeri e date che nessun veggente avrebbe mai potuto prevedere. Il 30 maggio ricorre il centenario di Anna Proclemer, compagna di Albertazzi sulla scena e nella vita per oltre vent’anni, dopo che rimase vedova del marito, lo scrittore Vitaliano Brancati. La Proclemer si spense il 25 aprile 2013 a quasi novant’anni, Albertazzi il 28 maggio 2016, giusto in tempo per correre altrove a festeggiare il novantatreesimo compleanno della sua amica e compagna.
La storia teatrale della signora Proclemer si intreccia in continuazione con quella di Albertazzi: si potrebbero raccontare centinaia di aneddoti che li hanno visti insieme sul palcoscenico e nella vita, ma pochi sanno che tra di loro esisteva una fortissima complicità poetica, oltre che teatrale. Conobbi la Proclemer in camerino, all’Argentina, dopo la rappresentazione di Ecuba, regia di Massimo Castri. Era il 1994, credo. Io ero in compagnia di Mario Ferrero, regista, storico docente della «Silvio D’Amico», amico dell’attrice da oltre mezzo secolo. Appena ci ricevette fece segno di chiudere la porta. Non era contenta di quello spettacolo, e si vedeva; il regista aveva imposto una recitazione simile a un bisbiglio. «Ma io non posso mormorare una tragedia di Euripide, mi sembrerebbe di fare un torto a tutti i nostri insegnanti d’accademia, a me stessa, a chi l’ha tradotta, agli anni trascorsi a declamare esametri e trimetri. Eppoi, questo fatto che il pubblico seduto in fondo alla platea debba faticare a sentire quel che si dice in ribalta, mi dà così sui nervi…».
Ferrero, dopo averla ascoltata in religioso silenzio, quasi avesse timore che un suo intervento aumentasse i toni della confidenza, e che qualcuno al di là della porta potesse sentire, all’improvviso, dimenticandosi di qualunque precauzione, esplose in un tripudio di contestazioni contro questa scellerata usanza di concepire una recitazione intima: «Di te s’è capito tutto, cara, ’un s’è persa una sillaba, ma le battute degli altri, un mistero», gridò con il suo inimitabile accento fiorentino. La verità, dal mio punto d’ascolto, stava nel mezzo: è vero, la voce della Proclemer era netta, stentorea, declamatrice, mentre quella degli altri era frammentata da qualche sibilo indecifrabile, ma non completamente! E trovai l’intuizione di Castri molto innovativa, sebbene poco incline alla tragedia antica, ma il risultato era affascinante.
Ritrovai la Proclemer qualche sera dopo, a casa di amici comuni. Rilassata, si era appartata su un divano: mi fece segno di versarle da bere. Mi avvicinai timido e mi squadrò: «Grazie, caro. Ti ho visto qualche sera fa con Mario, vero?». E mi chiese cosa pensassi dello spettacolo, ma, senza lasciarmi parlare, disse lei a me quel che pensava: «Non me ne importa nulla. Tu sai chi è stata per me la più grande attrice italiana? Titina De Filippo: la sua passione era così vera; la sua dizione impeccabile, pure quando parlava in napoletano. Io la conoscevo bene, sai». Non mi sarei mai aspettato che Anna Proclemer, nata in una zona d’Italia (Trento) dove l’influenza asburgica era fortissima, potesse indicare nella sorella di Eduardo la sua guida recitativa. Le spiegai, quindi, che, pur non avendola mai vista in teatro, conoscevo molto bene la sua voce per via di una registrazione di Filumena, su vinile, che mio padre custodiva gelosamente e che spesso ascoltavamo insieme. «Sei di Napoli, tu?» «Sì.» E cominciò dolcemente a dire, senza che le avessi chiesto nulla: «Erano ‘e tre doppo mezanotte…» Il suo non era un napoletano perfetto, non era quello di Filumena, e non pretendeva di esserlo, naturalmente, ma in quanto a dizione e chiarezza rispettava tutte le finali e le pause che furono di Titina, e di quella preghiera alla Madonna delle Rose che io avevo assimilato, grazie al vinile che ancora conservo. Fu una rivelazione. Un paio d’anni dopo fui invitato a casa sua, a una festa con declamazioni, e dopo cena lei, come fosse la cosa più normale del mondo, attaccò un brano in versi incomprensibili, ma quanta musicalità, quanta dolcezza in quella lingua che somigliava – forse – al canto subacqueo di una sirena, piena di vocali calde, di suoni liquidi, di emozioni ovattate. Nessuno capì una parola, ma il senso d’amore straziante colpì il cuore di tutti coloro che ascoltavano in russo il canto di Puskin, quando Tatiana si innamora di Onegin.
Nei primi anni Ottanta, vidi un recital di Albertazzi, una pomeridiana affollata da giovani liceali come me all’epoca. Recitò tante poesie di innumerevoli autori, quindi Dante e Petrarca. Il pubblico era entusiasta, e sugli applausi finali cominciò a chiedere a gran voce «Amleto, Amleto, Amleto». Anch’io mi aggregai al coro. Il sipario era già chiuso, ma lui era lì dietro, e sporgendo all’infuori solo il capo, sorridente disse: «Guardate che Amleto non è roba da poco». Ci fu un breve applauso seguito da un immediato assoluto silenzio. Tutti erano in attesa, e lui serafico: «Se proprio volete». Rimanendo quasi totalmente velato dalla tela rossa a cui teatralmente si aggrappò, illuminato da un occhio di bue strettissimo intorno al viso, cominciò sibilando: «Essere o non essere, è questo il problema». Apparve subito chiara l’intenzione di sottolineare la teatralità della situazione, con una recitazione al limite della follia attoriale, della stravaganza della finzione da parte di un interprete che vuol dare peso alla sua arte. Invece, subito dopo, appena Amleto dà inizio al suo ragionamento sull’eventualità della morte come unico soccorso a una vita troppo infelice, Albertazzi divenne talmente logico e rigorosamente pulito, che il sottoscritto, per la prima volta, finalmente, afferrò il senso delle parole di Shakespeare.
Con gli aneddoti su Albertazzi si potrebbe riscrivere l’enciclopedia teatrale, tuttavia mi piace ricordare l’ultima volta che lo vidi, non in teatro, ma in privato e proprio a casa della Proclemer. Una serata particolare che la figlia, Antonia Brancati, organizzò un anno dopo la morte della madre. Una serata in suo onore durante la quale, quasi tutti gli invitati, come soleva fare la padrona di casa che vigilava in ogni angolo della sala con un ritratto, una fotografia, una dedica scritta, omaggiarono l’attrice recitando poesie di ogni genere. C’erano attori e giornalisti, scrittori e musicisti, e anche qualcuno che non sapeva a quale categoria appartenere.
Quella sera una cara amica mi aveva presentato ad Antonia, appunto, come poeta, e fui invitato a leggere qualche mio verso giocoso che mise la platea di buon umore. Ma subito dopo una giovane attrice assai impegnata calò il Cinque di Lorca e sparigliò! Ci vollero almeno tre sonetti del Belli per ritirar su musi lunghi e mesti. Il convivio proseguì tra molti applausi, tanti sorrisi, moltissimo entusiasmo. Poco prima della mezzanotte, si alzò dal divano lui, Re Giorgio, che fino a quel momento era rimasto ad ascoltare. Era stato invitato a chiudere la performance con un suo intervento. In verità, si vedeva, non aspettava altro! Si prestò simpaticamente, con poche battute, a intrattenere l’esigua platea, qualche viso conosciuto, qualche altro meno, tuttavia, cominciò con una Pioggia incantevole che faceva risuonare la selva dannunziana di una miriade di suoni silvestri, soavi e piacevoli. Poi attaccò una sublime parodia di un classico, solitamente assai noioso, ma trasformato in un esilarante pezzo comico a due voci. E infine, quando le risate e gli applausi e gli sghignazzi non s’erano del tutto placati, un’altra voce nacque dallo spartito delle sue vocalità.
Una voce che giungeva dalla profondità antica della sua terra. Una voce maestosa per la sua regalità. «Godi Fiorenza…» e in un istante mi parve di ascoltare il Poeta, con quel leggero accento fiesolano, elegante, nobilitato dall’esperienza, di autentica schiatta fiorentina, mentre arringa sarcastico la sua città. E poi si districò con scaltra maestria, scivolando come un serpente, in quella doppia similitudine, solitamente incomprensibile, che invece s’illuminava di lucciole e poi ci accompagnava tutti insieme lassù cavalcando il carro d’Elia che scompare in una nuvoletta. Ero rapito dalla vicinanza dell’attore. Lo avevo proprio di fronte, a meno di un metro, quando lui fissandomi negli occhi disse: «Maestro mio». A ripensarci mi pare di essere ancora tra color che son sospesi tra il mitico Cavallo e il radioso Palladio. Ma lui insisteva. Voleva parlare a quella fiamma cornuta, e mi pregò e ripregò con un impeto commovente, tanto che le sue preghiere parvero mille. A me sembrò naturale accontentarlo con uno sguardo incantato e muto. Fu così che lo maggior corno de la fiamma antica cominciò a raccontare la più meravigliosa follia che l’uomo sia riuscito a immaginare, e passando nella strozza tra Sibilia e Setta, ci accompagnò tutti verso l’infinito orizzonte della libertà poetica, finché il silenzio fu sovra noi richiuso.
Foto in evidenza: Giorgio Albertazzi e Anna Proclemer in «La governante» di Vitaliano Brancati, regia Giuseppe Patroni Griffi (1965) (archivio Nicolini)