Multitasking. Orribile parola… Polifunzionale, polivalente, polisemico… vedremo. Multitasking comunque è la cifra globale dello spettacolo andato in scena allo spazio Interno4 (Roma 5-6 maggio 2023), Il modello di Rodin (testo e regia di Antonio Mocciola). Non solo lo spazio ospitante, dove Chiara Pavoni organizza eventi culturali a tutto campo, lo è, ma paradossalmente, come poi spiegherò, lo è in questo caso la sua struttura interna, dove sei avvolto su due lati da una teoria ininterrotta pareti-specchio. Specchi che svolgono il compito imprevisto di moltiplicatori della nudità dell’attore, ma che polisemicamente e contraddittoriamente interagiscono anche col dettato del testo. E come sempre in questo autore, densamente polisemico e multitasking è il messaggio stesso del testo. Lo spettacolo, che ospitava un pubblico prevalentemente di addetti ai lavori, è stato poi preceduto di un regalo di compleanno all’autore da parte della regista Giorgia Filanti, che ha recitato con stravolgente intensità e perizia un monologo da Performing 4:48, di Sarah Kane.
Come fa spesso, Mocciola, parte da un fatto vero, ma poi spicca il volo, e questa volta in modo particolarmente poetico. Il pretesto è la controversa statua realizzata da Rodin per parlare della sconfitta francese contro la Prussia (1870).
La statua (1877 – Intitolata Età del bronzo o anche L’uomo che veglia o I vinti )
fu processata in modo assurdo, col pretesto si trattasse di un imbroglio
(un calco da un cadavere e non uno studio su un modello), ma in realtà perché disturbava la sua vividezza, e il fatto che fosse messa al servizio di un fatto più da nascondere che da celebrare. Il modello su cui Rodin lavorò, e che è il protagonista della storia, dovette addirittura testimoniare, oltre che esibirsi nudo davanti alla commissione.
Quando Rodin lo scolpì era ancora un artista giovane e squattrinato, e agli albori della carriera. Aveva partecipato alla guerra franco-prussiana, e dopo l’apprendistato belga si sentiva pronto a rinascere, sotto il segno di Donatello e Michelangelo. La statua doveva rappresentare in realtà un uomo primitivo, al contempo la sconfitta e la rinascita.
Il testo di Mocciola entra con violenza nella vita di Rodin, e dalla torsione di quella statua immagina le torsioni dell’anima dello scultore, che del suo modello fa la cavia sadomaso di un impossibile parto d’anima, che per Rodin dovrebbe essere la sublimazione nell’eterno dei tormenti di una propria difficile adesione alla vita, di una fallita ricerca d’identità
“E’ quello che offende: la degenerazione […] amo l’assente che è in te. Estingue il mio fuoco presente. Tu sei tempo immobile .. inviolabile. E io devo proteggerti.”
Andiamo tuttavia con ordine. Rodin incontra il proprio modello per strada, un giovane soldatino reduce di guerra che, benché formalmente etero, è attratto da come lo guarda. E’ disoccupato, fragile, timido, e accetta con stupore l’offerta di posare per l’artista. Nudo, per anni, vincendo il proprio pudore, e la vergogna per possibili chiacchiere dei commilitoni. Rodin lo obbliga a vivere da lui, nudo tutto il tempo, sottoponendolo a una serie progressiva di vessazioni. Gli parla pochissimo, e non lo tocca mai. Lo fa dormire per terra, legato al divano, e amoreggia davanti a lui con più donne, spingendo loro a toccarlo e provocarlo. Vuole fargli vivere umiliazione e sconfitta ? Vuole farlo ribellare, svegliarlo ? Vuole esercitare sadicamente un frustrato potere da artista, e sfogare inconsce fantasie omosessuali ? La cosa è talmente forte che una delle donne gli fa notare che deve amarlo molto quel suo modello per tormentarlo così.
Ma qual è il vero tormento di Auguste (il modello) ?
“ mi fissi con uno spillo, come una farfalla inchiodata al muro. E mentre patetico cerco di sbattere le ali, tu mi scruti là dove non posso coprirmi. E mi sveli. I tuoi occhi sono tizzoni ardenti che bruciano la mia pelle nuda, tutta esposta eppure mai toccata. Tu mi rispetti. Ed è questo che non ti perdono ”
Essere visto, posseduto, fino all’annullamento, senza mai che il desiderio possa esplodere e placarsi. Infiammarsi dell’impossibile, ed esplorare gli abissi di quel desiderio che si dà solo nella tensione e nella mancanza, ma che pur chiederebbe di farsi semplicemente vita ed estinzione. Non significa certo una conversione ad una latente e denegata omosessualità. E’ irrilevante. Si tratta della tensione ad esistere.
“Nessuno nessuno mi ha mai visto così. Mia madre è morta presto, sfinita dall’inedia, dalla distanza tra sé e la vita. Mio padre mi ha irrobustito di ginnastica e poche parole. E le donne, tutte le donne, volevano da me soltanto che le ingravidassi e che le rendessi madri. Tutti distratti, tutti lontani.”
Dunque Rodin si fa madre specchio (si pensi a Lacan) ed al contempo specchio impossibile, sbarrato. Ed ecco il paradosso lacanniano che innesca la location tutta specchi. Moltiplicatori ossessivi di un nudo che non può che essere falso specchio di un falso sé, il sé del come tu mi vuoi, come tu mi vedi.
La vera nudità qui è oltre la pelle, oltre la superficie, è scarnificazione, sudore e sangue
“Devo orinare. Lo faccio per terra? […] Sogno che tutta Parigi mi sta di fronte, come un immenso plotone d’esecuzione. E io legato a un palo come San Sebastiano, nudo, pronto alle frecce […] Mi indichi uno straccio – Pulisci la tua urina […] Io sudo sempre, da ogni poro. Anche quando mi pianti quegli occhi incandescenti dentro ai miei, come chiodi nei tendini di Cristo appeso.
Posso assaggiare il mio sudore, Maestro? […] Di notte […] scendiamo. Anche se nevica […] ho i brividi ma non sento freddo, perché tu mi accarezzi. Ed é un altro tipo di brivido. Sono carezze vere, di cuoio.
[…] Quando cado nella neve, sento il profumo del mio sangue. E se caccio la lingua, ne riesco a sentire anche il sapore. E’ strano il sapore del sangue nella neve, Maestro […] Posso assaggiare il mio sangue, Maestro?”
Non è chiaro se Rodin sia la vera vittima che si immola per dar vita alla vita in Auguste – ma in questo caso sempre deus ex machina, sia pure sacrificale – o se sia il protagonista di una sconfitta imprevista. Un po’ tutt’e due probabilmente. Quello che è certo è che la via crucis di Auguste arriva a una resurrezione. Sorprende il maestro a ferirsi. Lo abbraccia, carezza, medica. Ma il totem si è rotto. Non è più un dio. E d’altronde Rodin, furente per la mostrata debolezza, incendia l’atelier.
Auguste vaga per Parigi, fino al porto fluviale, dove i pescatori che rammendano le reti gli ricordano la madre che cuce.
“L’ago ricuce, ha una sua nobiltà. E’ una richiesta di perdono.
Non è violento, non è uno spillo. Mi guardai riflesso nel fiume.
Erano mesi che non vedevo la mia figura riflessa. E mi immaginai nell’ultimo giorno di vita. Ecco come desidero spirare. Finalmente arreso al tempo crudele. Finalmente lontano dalla bellezza”
Rodin lo inchiodava all’astrazione dello sguardo che non vede. Le madri permettono di rompere lo specchio, di specchiarsi nel fiume della vita, e rinascere. Sovviene la poesia Fiumi, di Ungaretti.
Splendido testo. Poesia e polisemia. Un monologo a colata lavica, turgido e fremebondo. Servono un grande regista e un grande attore per farne teatro, e i due se la cavano. Dico i due perché la voce di Rodin è tutta inglobata nel discorso del modello, che ricorda e rivive in scena, anche dove il testo renderebbe lecito un secondo attore. Giordano Girolamo Bassetti (Auguste), giovane attore finora di commedia, vi si butta con coraggio, affrontando per la prima volta, d’un colpo, il tragico e il nudo (è nudo in scena per tutto il tempo). Sotto la direzione di Mocciola sgrana la grammatica dei gesti, ora in ginocchio, ora accasciato nell’angolo, ora appoggiato alla parete, ora in pose scultoree e squilibri. Ma suoi credo sono la voce e la mimica facciale. Qualcuno ha rilevato un tono di voce non adatto, ma dissento. Il suo tono è tenorile ma impastato, di testa e non di gola, e serve bene a rendere il suo fragile sbigottimento, la sua odissea di ferite ed inabissamenti, virginali e pudichi, pur nella violenza dello stupro d’anima. E’ una corda tesa che trema. Quanto alla mimica, più che giocarsi sulle espressioni facciali, è tutta d’occhi. Occhi di cane, occhi in fuga, che guardano dentro o lontano, o di lato, per torcersi via dal presente rivissuto.
Quanto a Mocciola – peraltro in genere alieno dalla regia – sta sul minimale, limitandosi ad intervallare con stacchi musicali e a dirigere la grammatica posturale. Una scelta del resto coerente alla centralità attoriale.
E il testo dirige tutto, invade, con la sua meta regia.
Il modello di Rodin –Testo e regia di Antonio Mocciola
Aiuto regia Bobby Guarnero – Con Giordano Girolamo Bassetti