Quando, nel 1933, fu pubblicato il romanzo di Fanny Hurst, Imitation of life, il codice Hays ancora non era diventato legge effettiva; entrò in vigore meno di un anno dopo, a film quasi ultimato. Era il 1934, e infatti la pellicola presentata alla Rassegna del cinema Pre-Code è la «più giovane» e la più lunga (ben 111 minuti). Ed è anche, e certamente, una delle più intense a causa del delicato argomento che tratta: il razzismo, un problema che ancora oggi è molto sentito e discusso, spesso però soltanto al centro di polemiche pretestuose. Negli ultimi tempi, lo schiamazzo disordinato e confuso dei social, tralasciando la gravità della questione, ha fatto rimbalzare in vari angoli del pianeta la voce che alcune pellicole storiche fossero tendenzialmente razziste e che quindi, in base a un criterio tanto puritano quanto bigotto, bisognasse intervenire per togliere o modificare (come la parlata di Mamy in «Via col vento») quelle scene che disturbavano la morale dei corretti.
Leggendo alcune note sul film di John M. Stahl, si viene a sapere – e bisogna saperlo, altrimenti si rischia di affogare nelle sabbie mobili degli inutili schiamazzi – che il personaggio di Delilah, una donna di colore in cerca di lavoro che accetterebbe anche senza retribuzione, pur di avere in cambio un tetto e un vitto per lei e sua figlia, parla una lingua scorretta, non per mortificare il colore della sua pelle, ma per far capire che non ha potuto frequentare la scuola. Questo particolare, e il film in genere, dovrebbe far comprendere come una certa Hollywood abbia affrontato seriamente i problemi razziali in America, soprattutto in quegli anni. Si pensi che la pellicola originale presentava alcune didascalie in apertura che avvertivano: «Atlantic City, nel 1919, non era soltanto una passerella sul lungomare ricco di lussuosi hotel dove gli sposi amavano trascorrere i loro viaggi di nozze. A pochi isolati dall’allegria del bel mondo, molti cittadini lavoravano duramente per far crescere i loro figli, proprio come accadeva in città meno affascinanti». Un attimo dopo, le immagini mostrano due bambine allevate dalle loro madri (ma senza padri) che, pur se di origini differenti, convivono, collaborano, e l’una tratta l’altra con egual rispetto e stima. Quando il film fu ristampato dalla Universal nel 1938, le didascalie furono sostituite, forse per l’inasprimento delle leggi censorie che invece di soffocare il germe razzista, lo rinvigorì.
Nel 1959, infatti, Douglas Sirk presentò una nuova versione del film, con Lana Turner. La regia fu molto meno incisiva della precedente, patinata di perbenismi, incastonata in un quadro senz’anima, proprio perché dopo cinquantacinque anni di sottomissione al Codice Hays, le produzioni s’erano assuefatte a rispettare tutti quei criteri corretti che le regole imponevano con severità. Per Stahl non fu così: lui era ancora libero da certi preconcetti. Quando, nel 1934, il film era ormai pronto per la distribuzione, gli esaminatori della censura furono presi in contropiede: pochissimi invocarono il veto, molti altri espressero pareri contrastanti, per il fatto che l’unica a mostrare sfacciatamente diffidenza nei confronti della pelle nera fosse Peola, sì di pella chiara, ma di quelle stesse origini africane di sua madre Delilah, interpretata da Louise Beavers. Dunque, può essere giudicata razzista una forma di avversione che rinnega le proprie radici? Si può essere tacciati di razzismo quando si detesta la propria razza? La pellicola ottenne il visto, conquistando poi sia la critica che il pubblico.
La Beavers, sempre in bilico tra il sorriso gioioso della vitalità del sud e l’angoscia straziante del dolore, nelle primissime scene ricorda molto Hattie McDaniel, la soprannominata Mamie, prima donna afroamericana insignita con l’Oscar (1940), la quale, durante la scena del funerale di Delilah, si confonde nella folla fuori la chiesa. Oltre a essere fisicamente molto simili, la caratterizzazione di questa «madre nera» non è troppo distante dal personaggio della Mamie di Fleming; la Beavers propone una donna buona, onesta e generosa d’animo, una madre pronta a qualunque sacrificio per crescere al meglio la sua bambina e che, appena può, già scorge nel suo sontuoso funerale la soddisfazione di un riscatto sociale. Tuttavia l’orgoglio delle sue origini, che vede riflesse nel colore della sua pelle, non le consente di comprendere appieno le ragioni che spingono sua figlia (ripetiamo: bianca) a voler fuggire, non dalla madre, ma dalla «negra» che è agli occhi della società, e che per lei è soltanto un pretesto di flagellazione psicologica. Se da una parte si potrebbe rimproverare a Delilah di non lasciar libera la figlia di vivere la sua indipendenza «bianca», dall’altra va compreso, non la possessività di una madre, ma la salvaguardia del futuro della sua ragazza: Delilah sa bene che una donna nera non potrà mai vivere da bianca, a meno che non si accontenti di una «imitazione della vita», che è il drammatico titolo del romanzo e del film.
Il malessere di Peola aumenta con l’età, malgrado l’abilità di Delilah che grazie ai suoi squisiti pancake, riesce a far arricchire due famiglie. Accanto a lei c’è la Bea di Claudette Colbert che aggiunge un tocco di classe e di leggerezza in un dramma che fa anche suo, malgrado non le appartenga. Stesso atteggiamento, ma con maggior eleganza, è quello di Warren William, che interpreta un sofisticato gentleman di professione, con l’hobby della ittiologia, fidanzato di Bea. Con loro ci sono anche altri personaggi, tutti bianchi e tutti saldamente solidali al dolore di Delilah: è la razza amica.
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Imitation of life (Lo specchio della vita), un film di John M. Stahl del 1934, dall’omonimo romanzo di Fannie Hurst. Claudette Colbert (Beatrice Pullman), Rochelle Hudson (Jessie Pullman), Ned Sparks (Elmer Smith), Louise Beavers (Delilah Johnson), Fredi Washington (Peola Johnson), Warren William (Steven Archer), Juanita Quigley (Jessie Pullman da bambina), Alan Hale (Martin), Henry Armetta (il pittore), Wyndham Standing (Jarvis, il maggiordomo), Henry Kolker (dottor Preston), Hattie McDaniel (al funerale). Sceneggiatura, William Hulburt e Preston Sturges. Costumi, Travis Banton. Regia di John M. Stahl. Per la rassegna «Hollywood proibita. Il cinema senza censure del Pre-Code» al Palazzo delle Esposizioni, sala Cinema
Foto in evidenza: Louise Beavers e Claudette Colbert