«Gli occhi più occhi di così» del teatro italiano, «occhi da salamandra nera» scriveva di lei l’amico Peppino Patroni Griffi. Nelle pupille, infatti, le brillava una luce attenta, sempre, che si intensificava quando il discorso catturava la sua curiosità. Di carattere ferreo, deciso, intraprendente, e sostenuto da una scaltrezza e un fiuto per le persone «che funzionano». Oppure, «No, questa cosa non funziona», diceva Rossella Falk in prova, e la cancellava totalmente, tanto che ogni regista era costretto a seguirla in quel che poteva sembrare un capriccio, ma che in realtà era una sensazione esatta (soltanto Giorgio De Lullo sapeva contrastarla). In effetti, Madame, aveva una sensibilità particolare in scena, e non s’è mai piegata di fronte a nessuno, nemmeno quando Luchino Visconti, che per primo le diede fiducia, subito dopo il diploma in accademia nel 1947, sotto la direzione di Silvio d’Amico, la relegò al ruolo di corifea in una tragedia greca agli albori della sua folgorante ascesa a Signora del palcoscenico.
Oggi, 5 maggio 2023, ricorre il decennale della morte. Predestinata sin dalla nascita alla ribalta teatrale, Qualcuno lassù scelse per lei anche il giorno più significativo della sua scomparsa per sottolineare che probabilmente Rossella, per un periodo, avesse incarnato la figura dell’imperatrice nel suo regno: il Teatro Eliseo, naturalmente. Predestinata, sì, certamente: era, infatti, nata a Roma il 10 novembre 1926, in quella zona in cui le strade dei Parioli sono dedicate ai grandi attori dell’Ottocento, in via Bellotti Bon, tra via Eleonora Duse e via Tommaso Salvini; a pochi metri dalla sua casa nativa c’è via Adelaide Ristori e la parallela è via Alemanno Morelli, il nonno di Rina, l’attrice che la tenne a battesimo, e che un giorno le sussurrò di non contraddire mai il Conte Luchino, soprattutto dal palco. «Se gli devi dire qualcosa, aspetta di star da sola con lui, non farlo davanti a tutti». Ma lei, giovane, ribelle e irruenta, non ascoltò il consiglio e, dopo uno scontro di troppo, lasciò la compagnia. Scelse la piazza di Milano, dove conobbe Romolo Valli: tra di loro scoccò una scintilla professionale, tanto entusiasmante quanto concreta. Quel che mancava a spronarli, entrambi, per il gran passo.
Rossella convinse Romolo a venire a Roma: aveva già in mente un piano «che funziona». Tornata dai suoi amici romani, Giorgio De Lullo e Tino Buazzelli, con loro diede vita, grazie anche al contributo sodale di Nora Ricci (figlia di Renzo), al primo nucleo di un gruppo che in un paio di stagioni divenne la compagine teatrale prediletta da un pubblico esperto che la ribattezzò con l’appellativo della Compagnia dei Giovani. Il motivo è facile comprenderlo: era l’unica in grado di competere con le compagnie formate da eccelsi attori che non erano più sbarbatelli: la Stoppa-Morelli, la Pagnani-Cervi, la Ricci-Magni. Bastarono pochi spettacoli, firmati da De Lullo e recitati da Rossella Falk, da Romolo Valli, da Annamaria Guarnieri, da Elsa Albani, da Ferruccio De Ceresa (Buazzelli, nel frattempo, aveva preferito altri palcoscenici) per far comprendere agli spettatori che gli allestimenti eseguiti dai Giovani fossero un prodotto artistico di eccelsa qualità e di elevatissima professionalità.
La Signora Falk divenne una star del palcoscenico, aveva un suo pubblico, i suoi ammiratori. Divenne il simbolo di un’epoca. Oggi si direbbe di lei che «fa tendenza» con la sua eleganza, la sua alterigia che mostrava in pubblico, sì, perché poi in privato era tutt’altra persona, anzi lei era proprio così, un po’ chic e un po’ romana, tanto da lasciarsi andare anche a battute dialettali, a volte era di una semplicità disarmante. Non la conoscevo ancora di persona, e mi trovai di fronte a lei vestita in maniera semplice ma perfetta, quando bussai alla sua porta in piazza Locatelli, al ghetto. Le portai un copione, «Margherita Gautier», che avrebbe voluto leggere prima che cominciassero le prove di uno spettacolo in cui lei non ci sarebbe stata, ma che la vide protagonista in un’edizione precedente. Era curiosa di capire come il testo venne modificato per la nuova Margherita. Le dissi che, da quel che avevo intuito, alcuni cambiamenti erano stati fatti per rinfrescare qualche battuta, per rendere il dialogo più svelto e appetibile all’orecchio del pubblico dell’epoca. E lei di rimando, tralasciando la scusa del linguaggio: «Tanto, anche in ciabatte, sono più alta io». Fu in quel momento che mi resi conto che Madame aveva le pantofole ai piedi, ma la sua eleganza non ne risentiva. E non era per effetto della statura, né per l’abito, né per la pettinatura impeccabile (benché fosse ancora mattina), ma, mi convinsi che fosse per lo sguardo, per il modo di muovere le mani che la rendevano «divina», altro soprannome che le venne attribuito molti anni prima. Un epiteto che l’accostava alla Divina per eccellenza, Maria Callas, della quale era attenta e affettuosa ammiratrice, tanto da dedicarle un mitico spettacolo, in cui ricreò il ruolo del soprano più famoso del mondo.
Il ruolo di protagonista le si addiceva sempre, pur se la locandina non lo prevedesse; anche quando De Lullo le chiese la cortesia di partecipare a un allestimento con una sola battuta: «Io son colei che mi si crede». Era il 1971 e i Giovani proponevano il Così è (se vi pare), quarto lavoro pirandelliano. Tutta la commedia si svolge intorno al mistero della Signora Ponza che soltanto al finale rivela agli astanti la verità della sua doppia esistenza. E quando la Falk, giungeva dal fondo, di nero vestita, con il volto coperto da un velo, si materializzava un’apparizione talmente suggestiva e importante, che immediatamente diventava la protagonista della scena.
Da giovane amava il divertimento e le belle macchine, quelle lunghe decappottabili di una volta. Con Giorgio, Romolo, Peppino ed Enrico Lucherini corsero in automobile fino in Costa Azzurra, dove, si dice, impazzarono per le promenades di Nizza e di Cannes, quando ancora – in quelle zone – il divertimento non era esclusività per ricchi. Ricchi ancora non lo erano, eppure fu la fine degli anni Cinquanta a far brillare la prima luce della loro stella. L’eco del successo e della loro giovialità raggiunse l’altro polo del mondo e li chiamarono con entusiasmo dal Sudamerica (1957), paese che raggiunsero su una nave «frequentata da gente un poco squallida, dove spiccano proterve e seducenti le toilette della nostra “divina”», sono parole di Valli; e durante il viaggio De Lullo pretese di organizzare a bordo le prove dei quattro spettacoli da portare tra i palcoscenici di Brasile, Uruguay e Argentina, proprio per non deludere le attese che s’erano create. «Giorgio esige, anche tra lo sballottio delle onde, che tutto sia perfetto, come se non si rendesse conto che lavoriamo in una situazione scomoda e difficile», scrive la Falk a Patroni Griffi. Il quale, prima che s’imbarcassero per la tournée, aveva fatto in tempo a consegnarle una copia di «D’amore si muore». Soltanto da pochi mesi, Rossella lo aveva sollecitato da Milano: «E ancora nello scriverti di me, dovrei dirti l’ansia che ho nel veder finita la tua commedia». Un lavoro ideato e scritto appositamente per i Giovani, i cui personaggi furono pensati dall’autore che trovò ispirazione proprio dai caratteri dei suoi amici.
E le ultime parole che io ascoltai di Rossella Falk – ne sento ancora la voce – furono dedicate proprio all’amicizia e pronunciate in chiesa per la scomparsa di Isabella Guidotti, attrice di quella felice Compagnia, di quel periodo irripetibile del teatro italiano: «Era un’amica – disse – un’amica sempre affettuosa come non ce ne sono più. E quanta allegria portava in tutti noi». La stessa allegria che accompagnava ogni successo degli spettacoli dei Giovani, di cui la Falk fu l’indiscussa Prima donna.
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Foto in evidenza: Rossella Falk fotografata da Patroni Griffi (archivio Nicolini)