Little Caesar, il primo boss con le ghette

Terza pellicola firmata da Mervyn LeRoy presentata al cinema Pre-Code, Little Caesar, più che un «Piccolo Cesare» è un piccolo capolavoro: non soltanto perché apre la serie dei film ispirati alla figura di Al Capone (di cui già abbiamo visto in apertura di rassegna «Scarface, lo sfregiato» di Howard Hawks), ma anche per l’avvincente trama che si sviluppa con ritmo serrato e mai ovvio, e soprattutto per la magnifica interpretazione di Edward G. Robinson, un ometto basso e tarchiato, con muso da ceffo poco affidabile e sguardo da duro. Molti lo ricorderanno ne «La donna del ritratto» di Fritz Lang, o nello «Straniero» al fianco di Orson Welles. L’attore, già esperto di personaggi dediti al banditismo americano dei ruggenti anni Venti, qui è nelle vesti del boss dei boss, l’unico che riuscì a mettere a soqquadro un’intera città e a tenere sotto scacco i capi delle bande rivali e la polizia di Chicago. L’inizio è molto simile a quello di «Scarface» (che è dell’anno successivo) e mostra un giovane dal grilletto facile deciso a tentare la scalata nell’ambiente della mala. Con lui c’è il suo migliore amico Joe (Douglas Fairbanks Jr., figlio del mitico Douglas, primo Zorro del cinema, primo D’Artagnan, primo Robin Hood, primo Ladro di Bagdad), bellissimo, elegante nei modi, delicato, amante della danza e delle donne, che lo segue nei primi colpi, ma poi, innamoratosi e soddisfatto del proprio lavoro di ballerino, lo abbandona.

Douglas Fairbanks Jr. e Glenda Farrell

Siamo in pieno proibizionismo e Rico, alias Little Caesar, si presenta (come Scarface) a Sam Vettori, che gestisce il traffico degli alcolici, per farsi assoldare; lascia subito intendere l’intenzione di volergli togliere il comando. Tuttavia, mentre lo sfregiato di Hawks strappò affari, soldi e donna prima di sparare al suo capo, il piccolo Rico conquista il timone delle operazioni malavitose con un chiaro e semplice ragionamento: «Tu sei sempre seduto dietro la scrivania, mentre noi siamo in strada a schivare proiettili. Evitare il rischio ti rende più in gamba di noi?». Sono le parole che in un attimo gli fanno acquistare stima tra gli altri componenti della gang che, senza inutile spargimento di sangue in seno alla squadra, lo promuovono a loro idolo.

Rico riesce a scalare la piramide fino a raggiungere la vetta, dove Big Boy, un politico che manovra la malavita della città, e che decide le sorti dei gangster che devono operare e quelli che devono «sparire», gli offre la possibilità di gestire l’intera piazza di Chicago. Il pensiero di Rico torna all’amico Joe.

Tralasciando il resto della trama e altri dettagli, esaminiamo il percorso della stretta amicizia tra Rico e Joe: molto interessante e ambiguo. LeRoy, infatti, costruisce il loro rapporto sulle basi delle rispettive fisicità: basso, brutto e rozzo l’uno, alto, bello e raffinato l’altro; Rico parla poco di donne e, se capita, non usa parole dolci, Joe sfodera una sensibilità che s’accende di fronte al fascino femminile, tanto che sarà una donna ad allontanarlo dall’amico. Quando il piccolo Cesare è diventato il più grande di tutti e offre a Joe un posto di privilegio nella sua gang, l’altro rifiuta pur sapendo di rischiare la vita. Ma Rico, puntandogli la pistola tra gli occhi resta affascinato dal suo opposto e non spara. LeRoy non approfondisce: l’etica del tempo lo vieta al di là delle ristrettezze del codice Hays. È ancora troppo presto per esibire un’amicizia con tendenze omosessuali. Mostrare pubblicamente quella che ancora per molti era una devianza, una malattia, non era assolutamente prudente. Eppure, l’unica conferma a questo sospetto arriva dalla figura eccessivamente autoritaria della madre di Rico, la quale, al cospetto di suo figlio, malgrado si renda conto di avere che fare col più temibile gangster della città, non si lascia intimidire, anzi poco è mancato che lo sculacciasse. Vedere la controfigura di Al Capone farsi mettere i piedi in testa da una vecchia megera, con i pugni ben piantati sui fianchi, resta la scena più comica.

S’è scritto che «Little Caesar» apre la serie dei film ispirati alla figura del boss di Chicago e per l’occasione la casa di produzione, la Warner Bros, in base al Production Code, che specificava cosa fosse considerato moralmente accettabile, aprì la pellicola con una lunga didascalia che suggeriva agli spettatori di prendere le distanze dai personaggi della storia, di non imitarne le gesta e di guardare il film in attesa che venisse «abolito il problema».

Un prezioso omaggio a «Little Caesar» lo offre Billy Wilder nel 1959. Nel suo film più famoso «A qualcuno piace caldo», ripropone il clima incandescente della Chicago del 1929. Jack Lemmon e Tony Curtis, due musicisti jazz, sono in fuga terrorizzati dalle minacce di un boss della malavita chiamato Ghette, soprannome attribuitogli per le vistose gambiere di stoffa che servivano a coprirgli le scarpe: usanza tipica dell’epoca. Edward G. Robinson fu il primo ad Hollywood a vestire i panni di Al Capone, comprese le ghette immacolate, accessorio che divenne il simbolo dei boss.

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Little Caesar (Piccolo Cesare). Un film di Mervyn LeRoy (1931), tratto dal romanzo di William Riley Burnett. Con Edward G. Robinson (Cesare Rico Bandello), Douglas Fairbanks Jr. (Joe Massara), Glenda Farrell (Olga Strassof), Stanley Fields (Sam Vettori), Ralph Ince (Diamond Pete Montana), William Collier Jr. (Tony Passa), Sidney Blackmer (Big Boy), Thomas E. Jackson (sergente Tom Flaherty), Maurice Black (Arnie Lorch), George E. Stone (Otero). Sceneggiatura di Francis E. Faragoh, Robert N. Lee, Robert Lord, Darryl F. Zanuck. Regia di Mervyn LeRoy. Per la rassegna «Hollywood proibita. Il cinema senza censure del Pre-Code» al Palazzo delle Esposizioni, sala Cinema

Nella foto sopra il titolo: Edward G. Robinson (Rico, il Piccolo Cesare)