Quando Frank Capra chiamò Barbara Stanwyck, per il ruolo di Megan Davis in The bitter tea of general Yen (L’amaro tè del generale Yen), era già la terza volta che regista e attrice lavoravano insieme, eppure la partecipazione di una delle star più affermate e acclamate dal pubblico di tutto il mondo non parve destare troppi entusiasmi, tant’è che i due si ritrovarono successivamente soltanto sul set di «John Doe» nel 1941. La pellicola sulla storia del generale Yen non ebbe grandissimo riscontro al botteghino e fu presto accantonata. Fu riscoperta e valorizzata molti anni dopo. Ciò accadde perché commercialmente all’epoca si puntò sul fascino e sulla popolarità della protagonista che invece deluse le aspettative di milioni di spettatori. D’altronde l’industria cinematografica, ancora oggi, funziona così!
Tuttavia, ammirando il film alla Rassegna del cinema Pre-Code, sono ben visibili due fiori all’occhiello. Il primo riguarda, per rimanere in argomento attoriale, il gran lavoro del protagonista maschile: Nils Asther (nel ruolo del generale Yen), che da aitante scandinavo si è trasformato in seducente dignitario cinese, accentuando il carattere pacifico e accattivante dell’erede di una notabile famiglia dalle origini molto antiche. Al di là dell’effetto causato dal trucco, talvolta reso sfacciatamente posticcio da alcuni primi piani, Asther riesce ad esaltare la severità di Yen mantenendo altissima la raffinata cortesia un po’ untuosa tipica degli orientali.
Il secondo fiore all’occhiello è il più importante: il coraggio di Frank Capra che porta sul grande schermo due argomenti più che scottanti. Si dice che il cinema Pre-Code sia stato scandaloso per via dell’esibizione delle gambe femminili: e anche qui non manca la scena in cui la Stanwyck, per entrare nella solita vasca da bagno, mostra le sue, ma non sono le gambe che, malgrado continuino a piacerci di più (come cantava Enzo Aita nel 1938), destano il nostro scalpore, ma è la spudorata dichiarazione con cui gli americani consideravano il popolo cinese in quel periodo. «Crudeli anche se fanno del bene», avverte il pastore all’inizio; e poi si sente qualcuno dire: «Subdoli, traditori immorali, anche se sembrano civilizzati», infatti per loro gli orfani sono soltanto «mocciosi senza antenati». Con queste battute, certamente poco rispettose nei riguardi di una «civiltà rimasta indietro di duecento anni» (parole che poi dirà il personaggio della Stanwyck) principia la storia della missionaria Megan Davis, che opera in un orfanotrofio nei pressi di Shangai, dove imperversa una sanguinosa guerra civile. Siamo, quindi tra il 1928 e il ’33.
Nel mezzo di uno scontro a fuoco Megan viene salvata dal generale Yen, un nobile militare che ricorda vagamente la storica figura del generale Chiang Kai-Shek e la sua strenua difesa del territorio contro gli attacchi dei comunisti di Mao. Per sottrarla ai pericoli bellici, Yen protegge l’americana nella sua reggia e naturalmente se ne innamora; lei, però, non potendo lasciare il palazzo si sente chiusa come se stesse in prigione; vorrebbe raggiungere il promesso sposo, ma questo desiderio le viene negato. Insomma comincia una lunga sfida a scacchi, con mosse e contromosse: il re insegue la regina e la regina scappa. Sodale di Megan è la bella Mah-Li, interpretata dall’unica autentica giapponese (Toshia Mori, di cinesi non se ne vede l’ombra!), schiava di Yen che, a causa di un rapporto segreto con il capitano dell’esercito, viene condannata a morte dal despota. Megan, sollecitata dall’ingiustizia, affronta Yen mettendolo di fronte alle sue arretratezze che diventano inciviltà, alle sue manie di grandezza che portano soltanto sangue e povertà. È un messaggio carico di differenze e pregiudizi razziali che certamente oggi qualcuno definirebbe «scorretto», ma l’abilità e il coraggio di Frank Capra si riconoscono proprio nella risposta di Yen che attacca duramente l’intoccabile civiltà americana. Il codice Hays sull’onore della bandiera Stelle e strisce, e su quel che rappresenta, si esprime in maniera molto chiara: doveva essere trattata rispettosamente, così come i popoli e la storia delle altre nazioni. Bene, proseguiamo!
Quando Yen prende la parola dichiara apertamente il suo sentimento d’odio nei confronti dei missionari americani che arrivano in Cina, tentando di «modificare in due settimane una storia millenaria», senza mai sforzarsi di «comprendere le antiche civiltà degli altri paesi e le loro remote tradizioni»; Yen condivide le differenze ma sottolinea che gli americani si comportano in terra straniera come se stessero a casa loro e questo atteggiamento lo indispettisce, perché – e a questo punto la sceneggiatura, per salvare Capra e cavoli, obbliga Yen a darsi la classica zappa sui piedi – i missionari che arrivano non si rendono conto che i loro precetti sono assai dannosi, infatti, insegnare al popolo analfabeta «a leggere e a scrivere è una minaccia costante» per chi comanda. Solo così Megan può concludere invitando il generale a non nascondersi dietro la «muraglia dell’orgoglio». Parole che annunciano l’imminente tramonto del potere del generale. Il suo esercito, infatti, subisce una drammatica sconfitta sul campo per il tradimento di Mah-Li. Yen perde tutto e tutti. Solo Megan gli resta accanto, prostrata ai suoi piedi come un’amante, forse addirittura come una schiava: altro tasto molto delicato toccato da Capra, che chiude il film facendo intuire che il cuore dell’americana potrebbe essere pronto a dimenticare il fidanzato che stava per sposare per un uomo di un’altra razza. In precedenza il tema era già stato affrontato da David Griffith in «Giglio infranto» del 1919, quando la babele dei dialoghi non era ancora possibile, e il silenzio governava il rispetto dei rapporti che si reggevano su sguardi teatrali e qualche didascalia.
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The bitter tea of general Yen (L’amaro tè del generale Yen), un film del 1933 di Frank Capra. Con Barbara Stanwyck (Megan Davis), Nils Asther (generale Yen), Toshia Mori (Mah-Li), Walter Connolly (Jones), Gavin Gordon (dottor Robert Strife), Richard Loo (capitano Li). Sceneggiatura, Edward Paramore. Costumi, Edward Stevenson. Regia, Frank Capra. Per la rassegna «Hollywood proibita. Il cinema senza censure del Pre-Code» al Palazzo delle Esposizioni, sala Cinema
Nella foto sopra il titolo: Nils Asther e Barbara Stanwyck