La donna “vestita di nero” chi è? Che cosa nasconde e che cosa può, invece, raccontare e dire? Quella stessa donna che osservava il marito, nascosta nel suo “cantone”, è stata portata in scena da Lucrezia Lante della Rovere, in un gioco e in un ribaltamento di prospettiva dell’opera teatrale L’uomo dal fiore in bocca di Luigi Pirandello, al Teatro Comunale di Vicenza.
Lei stavolta c’è, nel suo abito nero, i capelli raccolti, le scarpe con il tacco basso e una manciata di fili d’erba tra le braccia, inginocchiata sulla tomba del marito, morto per epitelioma. Lei vive e non è più nascosta e muta: ha il viso e la voce di Lucrezia Lante della Rovere, sul palco in un’interpretazione che svela il lato fragile e profondo dell’esperienza umana del dolore. Ciò che questo monologo regala è la trasposizione di un sentimento viscerale attraverso le parole, l’attraversamento della sofferenza interna, che pochi a livello superficiale capiscono, attraverso il racconto, il rilancio continuo e il dialogo tra il pubblico e l’artista sul palco. Molto spesso vedere con gli occhi e ascoltare una condizione, uno stato interiore proprio negli altri crea un ponte ideale e una risonanza emozionale che sfocia nella comprensione, nel riconoscimento. Il monologo, per questo, è stato momento di condivisione e di empatia su un tema particolare, il lutto.
Se l’opera di Pirandello vede come protagonisti un uomo malato che sa di avere poca vita e un avventore dall’esistenza tranquilla, questa volta la regia e l’adattamento di Francesco Zecca compiono un passo oltre, rivelando quella donna che, nel testo teatrale originale, viene appena accennata. Si tratta di un ribaltamento che mantiene il testo originale (la protagonista si trova quasi ad impersonare una doppia identità) e che conduce ad una serie di tematiche diverse, viste e dialogate da Lucrezia Lante della Rovere: la perdita, il senso della vita dopo, la morte e il lutto, la sopportazione, la diversità del come lo stesso evento viene vissuto, la consapevolezza di dover esistere quando intorno c’è mancanza, dolore, solo la tomba su cui piangere e piantare dei semplici fili d’erba.
Lucrezia Lante della Rovere ha interpretato con grande emotività e immedesimazione la situazione, lo stato d’animo di questa donna che soffre, bloccata dagli eventi, che si interroga, riflette e ricorda, attaccandosi “con l’immaginazione all’esistenza” degli altri. Un’espressione che, in corso di spettacolo, diventa quasi salvifica. Sopportare significa spingersi con il pensiero all’esterno, immaginando e reinventando ciò che ancora resiste ed è presente, nonostante tutto. Ogni dettaglio, per la protagonista, assume un significato diverso, diventa un appiglio di esistenza. Accanto a questa sorta di attaccamento, c’è la grande potenza della consapevolezza: attraversata dal dolore e dalla mancanza, questa donna si trova a parlare del prima, del marito che non riesce a lasciare, di cos’è ancora importante. Riesce ad unire il passato al presente con un’emotività commovente e una logica fuori dagli schemi e lo fa utilizzando i testi veri de L’uomo dal fiore in bocca, grazie a questa prospettiva trasformata.
In questa donna c’è amore, resistenza, tormento, la visibilità della sua condizione realizzata grazie agli specchi presenti sul palcoscenico, quell’arrendevolezza che non sfocia però nell’abbandono totale: le parole, a tratti dolci e a tratti forti, quasi gridate, interrotte dai singhiozzi, colpiscono, chiamano il pubblico e narrano una vita difficile, all’ombra di un marito che, allontanandosi da lei, non l’ha compresa. Resta il momento presente e lei, ora, si trova lì, accanto alla tomba, priva della capacità di accettare pienamente e di capire i tanti perché.
Emergono così il peso del passato, di ciò che non è mai stato, il valore del tempo che passa, di ogni particolare inosservato e la distruzione improvvisa del male prima e della morte poi. Su tutto questo, rimane e resiste l’immaginazione, quell’immaginare la vita oltre il reale.
Lucrezia Lante della Rovere restituisce un’interpretazione sentita, sofferente, in sintonia con chi ha davvero vissuto la sua stessa esperienza, capace di “cavare fuori” le parole e l’emotività nascoste dal dolore e dall’insopportabile, iniziale necessità di dover vivere, nonostante il vuoto ancora fresco lasciato e causato dalla morte. La situazione di impossibilità, l’incapacità di vedere se c’è davvero qualcos’altro.
L’uomo dal fiore in bocca è controbilanciato e ripreso, allo stesso tempo, da questa donna che tiene tra le braccia tanti fili d’erba, da piantare sulla tomba del consorte: “ogni filo d’erba è vita” ed è forse questo il messaggio viscerale, faticoso da intravedere anche nell’esistenza vera: la vita continua, la vita c’è accanto alla morte, esiste ancora per i vivi che cercano una motivazione, uno spiraglio. Questa donna che si attacca all’immaginazione, soffrendo, si aggrappa ancora a quei fili d’erba e a quella vita che ancora l’aspetta.
Il tentativo di capire, di darsi delle ragioni e la forza dell’immaginazione, su cui si gioca questo ribaltamento fedele all’opera, caratterizzano lo spettacolo che tanto può dire anche del presente di ognuno grazie alla scoperta di una protagonista, che più nascosta non è.
di Luigi Pirandello
adattamento e regia Francesco Zecca
con Lucrezia Lante della Rovere
musiche originali Diego Buongiorno
disegno/luci Alberto Tizzone
props Arti Plastiche di Riccardo Morucci
aiuto regia Rebecca Righetti
produzione Argot Produzioni e Pierfrancesco Pisani per Infinito Teatro