Firs, il grande assente nel Giardino di Rosario Lisma alla Sala Umberto

Tra le poche indicazioni che Anton Čechov scrive a proposito del Giardino dei ciliegi ce n’è una fondamentale, addirittura ripetuta dall’autore, il quale insiste nel considerare il suo ultimo lavoro teatrale (terminato nel 1903) una «commedia»; e tanto la sentiva ricca di spunti comici e umoristici da rifiutare ogni responsabilità nella messa in scena, cupa e malinconica, che Stanislavskij diresse per la prima rappresentazione del 17 gennaio 1904 al Teatro d’Arte di Mosca. L’ormai storica diatriba tra autore e regista si concluse, sei mesi dopo, per la scomparsa di Čechov, senza che nessuno dei due si fosse persuaso delle idee dell’altro. A noi resta, quindi, una doppia verità: con «Il giardino dei ciliegi» o ci si commuove o si ride; o forse i sentimenti si mescolano tra di loro durante le varie scene che si susseguono e che hanno come protagonisti personaggi assai buffi, che lo stesso autore descrive con sarcasmo e leggerezza. Eccetto due di loro: da una parte il vecchio Firs, servitore devoto, ormai antico, nato e cresciuto come servo della gleba, e dall’altro Trofimov, il giovane eterno studente, nato libero (ossia dopo il 1861, quando gli schiavi furono emancipati da Alessandro II), che detiene in sé la speranza della primavera sociale, della nuova vita, e dell’avvenire progressista («Dobbiamo soltanto lavorare», dice, per ottenere la vera indipendenza).

In mezzo a questi due personaggi, che si trovano agli antipodi e che rappresentano il mondo reale, quello di una volta e quello che sarà, vive in maniera serena e leggera una pletora di altri figuri capaci di incarnare la vanità della vita, ciascuno con i propri sogni che quasi nessuno riuscirà a realizzare. Čechov, disegnando con eccelsa maestria i personaggi di mezzo – tutti, nessuno escluso – riesce a descrivere l’assenza di un mondo dal contesto vitale di una società. Nel «Giardino dei ciliegi» la vita sembra fluttuare come una tranquilla passeggiata nell’Eden, in cui nulla è necessario, nemmeno quando la catastrofe è lì davanti agli occhi dei protagonisti che non sembrano mai troppo impegnati nelle loro faccende giornaliere. Perfino Lopachin, il più energico, attivo e caparbio, in una simile atmosfera, si lascia coinvolgere dal dolce far niente («Qui con voi ho soltanto perduto tempo» dirà al finale).

Per dar consistenza rappresentativa a questa assenza dalla vita, per rendere verosimile questo deserto sociale, per far sì che la serenità possa sposarsi con la vanità, e far breccia nell’interesse del pubblico, occorre che i personaggi descritti da Čechov siano presenti in scena (almeno i dodici principali), altrimenti ai pochi sopravvissuti (soltanto sei in questa edizione) viene imposta una quotidianità faticosissima che annulla ogni tentativo di rarefazione. Nell’allestimento di Rosario Lisma (che ha curato l’adattamento, oltre alla regia) gli attori, spesso, sono addirittura impegnati a recitare le battute dei personaggi tagliati, e il sovraccarico si avverte; mentre Čechov vuole che quando uno di essi desidera prendere una futile iniziativa, immediatamente venga risucchiato dall’ineluttabile indolenza generale. Il povero Lopachin, per esempio, non riesce a portare a termine neanche un brindisi, dopo aver tentato invano, per mesi, di sollecitare un’azione risolutiva che avrebbe salvato le sorti del giardino!

Gli attori, che indossano abiti moderni, ma che si aggirano in luoghi senza un tempo definito, non hanno seguito i suggerimenti umoristici seminati dall’autore; né hanno mai affondato il pedale sulla malinconia evocata da Stanislavskij. A parte l’intensa e convincente prova di Eleonora Giovanardi (Varia), e una discontinua esibizione del Lopachin di Lisma, gli altri non sono riusciti a immedesimarsi nella drammaturgia dei loro ruoli: probabilmente per mancanza di equilibrio e di proporzioni a causa dei troppi personaggi tagliati. Un handicap che ha nociuto soprattutto alla commozione finale del quarto atto.

Mancano infatti all’appello: la cameriera Duniascia che apre la commedia; il possidente decaduto Pischik, eternamente in cerca di un prestito; i giochi di prestigio di Charlotte, la governante apolide; Iascia, giovane valletto di Liuba, audace e dispettoso; l’impacciato contabile Iepichodov, oltre alle comparse. Ma non è tutto: la falce, proprio quella della morte, è passata crudele e indecorosa anzitempo perfino sull’antico maggiordomo Firs, il grande assente, un caposaldo della letteratura teatrale, l’albero maestro della casa, il simbolo della gloria del giardino dei ciliegi, l’emblema della ricchezza della famiglia di Liuba, di quando da lì partivano carri stracarichi di ciliegie (e che quindi tornavano pieni di soldi). Purtroppo la voce registrata di Roberto Herlitzka che pur ci fa ascoltare qualche battuta del vecchio servitore, ridotto a fantasma che s’aggira invisibile per le stanze, non riesce a sostituire l’assenza fisica del primo dei due pilastri (come abbiamo già scritto) su cui reggono i tempi epocali della commedia.

A proposito di tempi. Nell’edizione in scena alla Sala Umberto di Roma fino al 2 aprile si parla di città russe che dal 1990 invece non sono più sotto la giurisdizione di Mosca, però Liuba riceve messaggi da Parigi, non per telegramma, ma per sms al cellulare (quindi, fine anni Novanta se non dopo); Gaiev, suo fratello, non gioca più a biliardo, ma ascolta 45 giri da un mangia-dischi (quindi, fine Sessanta, primi Settanta), poi, insieme cantano «La stagione dell’amore» di Battiato (1983), si nomina la transavanguardia degli anni ‘70, insomma c’è un po’ di confusione sul periodo dell’ambientazione scenica; ma anche la confusione fa parte delle scelte registiche, forse discutibili, forse no, tuttavia vanno sottolineate due battute temporali che sono rimaste così come Čechov le ha scritte e che non corrispondono né al periodo di Battiato, né del mangia-dischi e nemmeno del cellulare: la prima di Trofimov che asserisce che la Russia, evidentemente quella tra il 1970 e il 2000, è «indietro di 200 anni», per la verità le cronache di quei giorni ci raccontano altro! la seconda di Lopachin, il quale grida (il 22 agosto di un anno compreso sempre tra il 1970 e il 2000) «… ho comprato la terra dove mio padre e mio nonno erano schiavi», ergo un passato remoto antecedente al 1861. Come abbia fatto il padre di Lopachin, prima di quell’anno, ad essere già in età da lavoro e aver poi dato alla luce un figlio nel secondo Dopoguerra, resta uno dei misteri più affascinanti di questo adattamento del «Giardino dei ciliegi».

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Il giardino dei ciliegi di Anton Cechov, con Milvia Marigliano (Liubov Andreevna), Giovanni Franzoni (Gaiev Leonid), Rosario Lisma (Lopachin), Eleonora Giovanardi (Varia), Dalila Reas (Ania), Tano Mongelli (Trofimov), e con la voce registrata di Roberto Herlitzka (Firs). Regia di Rosario Lisma; scenografie, Federico Biancalami; costumi, Valeria Donata Bettella. Teatro Sala Umberto, fino al 2 aprile