La recensione della seconda stagione della serie Netflix, “Lupin”. Altre avventure del ladro gentiluomo con cappotto e sneakers al piede interpretato, ancora una volta, dall’impeccabile Omar Sy.
Omar Sy si rivela ancora una volta perfetto nei panni di un protagonista anti-eroe come Assane Diop, che si ispira ai romanzi del suo mito Lupin. L’ultima puntata della prima stagione ha lasciato il pubblico con il fiato sospeso quando il figlio del protagonista, Raoul, viene rapito da uno degli uomini dell’antagonista, Pellegrini, ossessionato da Assane che vuole vendicare suo padre Babakar, rivelando così la sua identità da truffatore.
Abituato alla leggerezza della prima stagione, qui il pubblico si trova a dover seguire la storia con molta attenzione, altrimenti bisogna inevitabilmente tornare indietro con il telecomando per captare ogni minima sfumatura, essenziale per lo storytelling. Una narrazione che prorompe in momenti sempre più action. Continua la scelta del flashback, servendosi di un adrenalinico montaggio alternato per fare un salto all’indietro nel 1995, quando Assane e l’inseparabile amico Benjamin muovevano i primi passi nel mondo “dans l’ombre”.
In questa seconda parte di “Lupin” gli sceneggiatori hanno posto l’accento sull’aspetto emozionale dei personaggi: Assane appare sempre sicuro di sé, riesce nei suoi intenti ma lo tormenta l’idea di non essere un buon padre per Raoul e di non essere stato un buon compagno per Claire, che nonostante sia legata a lui da uno strano rapporto, tenta di rifarsi una vita sentimentale con un altro uomo. Juliette Pellegrini, algida nella prima stagione, qui sembra più schierata verso il suo flirt adolescenziale con Assane, spingendosi anche a romanici momenti sul lungo Senna col protagonista, che però non le corrisponde un sentimento sincero.
Rimane il tema del razzismo, che agli occhi degli spettatori del 2021, ormai appare come una fiction cinematografica o una trovata narrativa, ma purtroppo non per tutti. Tuttavia, ciò che prevale sin dalla prima puntata della seconda parte di questo progetto francese di casa Netflix è l’alta tensione tipica di un “Die Hard” di Roderick Thorp invece che di un thriller poliziesco a cui il pubblico di “Lupin” era abituato; a cui segue un finale elegante come il Lupin dei romanzi di Maurice Leblanc.
Questo finale conclude la seconda parte della serie attraendo come una calamita lo spettatore allo schermo, forse anche perché gusta la poetica scenografia originale di una Parigi che innamora e posa quella ciliegina sulla torta della serie “Lupin”. Rendex-vous à la troisième saison.