“Dino” il monologo di Bernardo Casertano al Teatro Centrale Preneste

Mi chiamo Dino, sono l’aborto di Dio, la brutta copia di Dio, un suo plagio, un suo riflesso, un Lucifero, l’angelo caduto che ha scelto di farsi carne nel ventre di una donna.
Sono il bambino ai suoi primi passi, sangue del tuo sangue madre, gettato tra gli uomini, in mezzo ad essi, per diventare colpevole di tutto ed imparare la vita.


Al Teatro Centrale Preneste, all’interno della rassegna multidisciplinare YOU.TWO – The YOUng city, il 24 febbraio scorso l’attore e regista Bernardo Casertano ha portato in scena il suo “Dino”, un monologo liberamente tratto da “Il Re del plagio” del controverso artista belga Jan Fabre.
“Dino” però è creatura totalmente nuova, neonato voto di Casertano alla figura materna e parte prima di una trilogia sul tema della condizione umana che segue con gli spettacoli “Caligola – Assolo. 1” ispirato al “Caligola” di Albert Camus, che affronta la maturità e la spaventosa libertà dell’individuo nella sua solitudine e “Charta” che tratta il tema della paternità traendo spunto dai due testi “Affabulazione” di Pier Paolo Pasolini e “Pinocchio” di Carlo Collodi, nella trasposizione di Carmelo Bene.

Bernardo Casertano in “Dino”


Come si viene al mondo? Qual è la forza che spinge un’idea ad incarnarsi in una forma teatro?
Il “Dino” di Bernardo Casertano è la tenera e sofferta dichiarazione di una doppia scelta, quella di diventare uomo e quella di diventare attore, sganciando, in entrambi i casi, il cordone, il legame, quel filo invisibile ma resistentissimo che ci tiene bloccati in percorsi chiusi, così come un animale legato ad un perno può compiere soltanto movimenti limitati.
Con un passettino e un frullare di piume d’ali, spostandosi dal palco alla platea “Dino” nasce ma resta appeso ad una corda. È innocente, è incapace di parlare, scopre di avere un corpo, scopre di desiderare e il desiderio si fa presto caduta nell’errore.
Vuole essere colpevole “Dino” e per questo rinuncia alla perfezione, accetta di correre il rischio di mettersi in piedi da solo e camminare.


Nel corso del monologo Bernardo Casertano evoca la madre, lo fa impersonandola e cercando in una lingua comune, nella forma dialettale, la voce di lei. “Dino” è piccirillo piccirillo, tene i’ cuscetelle secche secche e gli piace tanto il gelato.
Lei è per lui quel perno, insostituibile, immobile, a cui deve aggrapparsi per alzarsi da terra dopo essere scivolato ancora una volta.
La placenta che lo ha avvolto si schiude come blocco di ghiaccio che sanguina, andando in frantumi. Inscenando la sua rinuncia allo stato di grazia di una creatura solo in potenza, come è proprio di un angelo e di un feto, “Dino” rimette insieme i pezzi e prende il coraggio di sciogliere i nodi.

Bello che a ricombinare le lettere della parola “Dino” si ottenga sia la parola nodi che nido, a sottolineare quanto il viluppo di un nido sia un intreccio involto di nodi.

Il monologo di Bernardo Casertano è il racconto di una doppia nascita, di un venire alla luce della consapevolezza. Un ringraziamento alla vita e a quella madre, divina creatrice, che ne fa dono.