Molly Bloom è la moglie Leopold Bloom, protagonista dell’«Ulisse» di James Joyce. È lei il personaggio a cui lo scrittore irlandese affida l’epilogo del suo romanzo più famoso. «Capitolo 18, Penelope, il letto»: come lo stesso Joyce indicò il titolo della sezione conclusiva del suo libro, vietando che venisse stampato all’interno dell’opera. Pertanto la minuscola sala dell’Accento teatro di Testaccio s’è trasformata per l’occasione in un grande letto rosso che accoglie Molly e suo marito Leopold. E allo spettatore accorto, pur se seduto su una sedia dell’esigua platea, è parso di far parte di quell’alcova coniugale; ospite nemmeno troppo indesiderato, visto l’argomento.
«È colpa sua se sono un’adultera», ostenta infatti Molly senza mostrare apparentemente alcun senso di colpa. Joyce paragona Molly a Penelope, la moglie devota e fedele, ma Molly è diversa, lei è istintivamente passionale, tanto da divenire fedifraga con innata leggerezza. In lei prevalgono le esigenze fisiche e il corpo sovente esige l’estasi del piacere, in un attimo si fa carne di sensualità. Tuttavia la sua devozione nei confronti del marito si evince ed è chiara sin dalle prime battute: «Ci vuole solo una donna per far guarire un uomo», dice guardando il fantoccio immobile nel letto. Leopold probabilmente è reduce dall’ultima sbronza e sarà lei a rimetterlo in piedi, perché, per sentirsi ancora moglie, ormai non le resta che prestar soccorso quotidiano all’uomo dissoluto che ha sposato.
Molly sa che Leopold, nonostante l’età, ha bisogno di donne: «Non può stare molto tempo senza farlo». Quasi lo giustifica per quei tradimenti, come se fossero per lei il pretesto di poter affittare qualche ragazzino e divertirsi durante le assenze del coniuge. E non si preoccupa né dell’età, né della sua carne non più fresca, perché sa bene che «tutti gli uomini sono così». Sin da piccoli.
È evidente, però, che la possibilità dell’adulterio facile (per anni è stata l’amante del suo impresario Boylan quando cantava), la libertà che le lascia Leopold e l’occasione di poterlo ripagare con la stessa moneta non cancelli l’insoddisfazione della donna, il fallimento della moglie, il dolore della madre che ha perduto un figlio appena nato. Disperata, quindi, reclama un abbraccio: «Una donna vuole essere abbracciata venti volte al giorno e non importa da chi», affermazione che all’improvviso sposta il senso audace della confidenza frizzante e vitale in un racconto dal risvolto drammatico.
Pierpaolo Sepe, regista d’esperienza, sapientemente costruisce l’alcova come fosse la stanza della memoria della protagonista, dove tra abiti e cappellini stipati in un baule e vecchi ninnoli infantili, spuntano anche i papaveri, souvenir di un amore passato. La regia però risente di un eccesso di materiale d’attrezzeria e del suo uso, a volte superfluo, che non giova soprattutto ai movimenti che, in uno spazio tanto esiguo (la foto pubblicata non corrisponde allo spettacolo visto a Roma), invece andrebbero ridotti al minimo per evitare impacci. Efficace, comunque, l’illuminazione che colora l’antro di passione e carnalità, così come sono le caratteristiche dell’interprete che, mentre sembra intenta ad andare a letto, ancora in sottoveste, si anima di ricordi e di considerazioni sulla sua vita coniugale e non. Isabella Caserta, non lasciandosi troppo influenzare dal tormento dei passaggi angusti (tra le ante del comò e le sedie, tra la carrozzina e il letto, tra il sipario e il baule), impavida si cala perfettamente nel personaggio di Molly, regalandole spigliati e precisi toni di leggerezza che accendono la luce della felicità che in lei non s’è mai spenta, e che è la forza della sua esistenza. Implacabile, anche nelle disgrazie, Molly così cerca rifugio nella vita.
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Molly Bloom monologo tratto dall’«Ulisse» di James Joyce, con Isabella Caserta. Regia di Pierpaolo Sepe. All’Accento teatro (Testaccio), fino al 19 febbraio.