«E po’, a colpa è ‘a mia / ‘a colpa è ‘a mia / ca nun te saccio cchiù piglia’. / È colpa mia, / ma è sulo pe’ parla’». Da questi versi nasce Sulo pe’ parla’, spettacolo tra note e parole per scoprire la poetica di Pino Daniele. Un omaggio che Enzo Decaro e Antonio Onorato, dedicano al loro amico, considerato tra i più intensi ed espressivi cantautori italiani della nostra epoca.
Enzo Decaro, per chi non lo ricordasse, era il bello del trio «La smorfia», insieme con Massimo Troisi e Lello Arena. Il chitarrista Antonio Onorato, invece, è stato tra i più stretti collaboratori del musicista napoletano scomparso troppo precocemente nel 2015 non ancora sessantenne.
Il tributo (serata unica al teatro di Villa Lazzaroni di via Appia) che vorrebbe portare all’attenzione del pubblico la qualità dei versi di Daniele, in effetti, raggiunge un doppio obbiettivo. Il primo è indubbiamente quello di sottolineare il valore letterario del cantautore che sembra ispirato da una nuova napoletanità a volte polemica, perché legata alla sofferenza e allo spirito di denuncia; a volte, invece, più evasiva, quasi necessariamente romantica, alla ricerca di una speranza di libertà più che a un vero e proprio affrancamento. Il secondo obbiettivo, più sottile e raffinato, è stato centrato dall’abilità del chitarrista, il quale restituendo alle canzoni le note del canto (cioè usando lo strumento non come semplice accompagnamento alla voce ma come se fosse la voce stessa) ha offerto una sonorità sillabica ad ogni verso, come se ciascuna nota non potesse fare a meno di quella vocalità. In verità, la sensazione ricevuta era stata annunciata da Decaro in apertura: «La fregatura per il paroliere Pino è che s’è imbattuto in un musicista più bravo del poeta».
Tuttavia, ascoltare da una parte la musica senza parole e dall’altra le parole al di fuori del cantato, è stato come partecipare alla creazione di un’opera, per certi aspetti «buffa» come lo fu il melodramma ai suoi albori, per altri addirittura maestosa come la pazzia di Masaniello, fonte d’ispirazione della più famosa canzone di Pino Daniele, che coinvolse tutto il popolo napoletano, il quale oggi, grazie a Daniele, ha modificato il suo canto atavico, passando dalla mandolinata al blues. Un genere musicale certamente più vicino all’antica e disperata tammurriata.
Così come disperato è, per l’occhio attento di Daniele, il mondo dei più vecchi: chi alla ricerca di un dialogo che non trova più, pertanto, l’indifferenza del prossimo lo spinge a pensare alla morte; e chi, come donna Concetta, preferisce dormire anziché gridare al mondo tutte le sue sofferenze, quelle da lei patite e quelle che lei vede avvicinarsi ai più giovani.
S’è detto dell’aria polemica della canzone di Daniele. E stasera, mentre si recitavano i versi di «Na tazzulella ‘e café» (testo che inizialmente l’autore offrì all’amico Massimo Troisi che li trovò eccessivamente forti) è venuto fuori potentissimo, senza la musica, quello che dice più volte «se magnano ‘a città» che, associato a «s’aizano ‘e palazze, fanno cose ‘e pazze», potrebbe essere scambiato facilmente per un revival canoro del film di Franco Rosi, «Mani sulla città». La canzone è del 1977, il film del 1963: la Napoli divorata dall’edilizia più spregiudicata è sempre la stessa, e ‘a tazzulella ‘e café resta l’unico oppio che il popolo napoletano ha ottenuto, da una classe politica corrotta e affarista, per osservare una vita di silenzi, di privazioni e di ignoranza.
Ma la denuncia di Pino Daniele non si ferma solo alla città, ma raggiunge quel «mare tutto spuorco, chino ‘e munnezza / e nisciuno ‘o vuo’ guarda’». È sicuramente una ferita, questa, per i napoletani abituati al mare cristallino di Santa Lucia dove di notte luccicava l’astro d’argento, ma è la pura verità per quei «lazzari felici, / gente ca nun trova cchiù pace / e quanno canta se dispiace». E lui lo sapeva che qualcuno si sarebbe dispiaciuto a cantare le sue parole più scomode: «È colpa mia, / ma è sulo pe’ parla’». O forse, caro Pino, è soltanto per onesta civiltà.