“Astor”, al Teatro Quirino la storia di un viaggio a suon di tango.

Euforia: è questo il sentimento condiviso prima di uno spettacolo. Un sentimento accentuato dal clima natalizio che si respira a pieni polmoni per le strade di una Roma in crescente fermento. Improvvisamente, lo stato di ipnosi: i mille chiacchiericci – che in un primo momento riempivano l’intero teatro – tutto d’un tratto si arrestano e, come un bambino a cui si canta la ninna nanna, ciascuno degli astanti viene cullato dal soave scroscio delle onde partecipando alla riscoperta di un’identità perduta. È proprio nel mare – fil rouge dell’intera performance – che, difatti, si identifica il tumultuoso viaggio della vita tra perdite e nuove scoperte.

Così, dalle note nostalgiche, “Astor” non rappresenta solamente un omaggio ad un intramontabile artista come Piazzolla; ma più profondamente rappresenta quel viaggio che tutti, almeno una volta nella vita, abbiamo intrapreso attraversando (che sia fisicamente o interiormente) spazi immensi prima di trovare terra ferma; prima di riscoprire la propria identità.

E come esprimere tutto ciò se non nella potente espressività della musica e della sua più cara alleata, la danza? Sul palco, un intimo dialogo unisce i corpi dei danzatori al suono melanconico e passionale della fisarmonica e del bandoneon suonati magistralmente da Mario Stefano Pietrodarchi. Un profondo dialogo il loro, che riporta alla memoria il ricordo di anime e corpi erranti; un ricordo che peraltro non è poi così lontano e distante dalla vita di oggi: cosa siamo noi, se non testimoni ed ereditieri di un fato tempestoso?

Reduci di un periodo così gravoso, come quello pandemico, fatto di gesti mancati e sguardi sfuggevoli; è proprio nel ritmo sanguigno del tango – i cui arrangiamenti electro ne accentuano il pathos – che esploriamo noi stessi trovando nell’alterità un riflesso di ciò che siamo. Come corpi in rodaggio, riassaporiamo la bellezza di abbracci mancati; di carezze rubate: ci riappropriamo della nostra identità.

Il viaggio però è ancora lungo: il lavoro, che porta la firma di Carlos Branca, difatti, è un vero e proprio inno ad un ritorno. Laddove, nel linguaggio corporeo, sembra essere talvolta manchevole il fuego proprio del tango – forse per la giovane età dei danzatori – l’effetto che ne deriva non è affatto disturbante, bensì accentuativo dell’intera trama drammaturgica. Nonostante fossimo testimoni di un ritorno in patria, al calarsi del sipario il nostro sembra però ancora essere un viaggio irrisoluto. Non è ancora tempo di dire: «finalmente sono a casa».

Astor, Un secolo di Tango

Regia di Carlos Branca

Dal 19 al 25 dicembre – Teatro Quirino