Un disastro ferroviario che pure si segnala come il più tragico avvenuto in Europa, capace di produrre mezzo migliaio di vittime, al cospetto della macelleria umana e civile che ha insanguinato l’epilogo dell’ultimo conflitto mondiale, finisce inevitabilmente per andarsi a confinare in un angolo remoto e dimenticato della Storia.
Inverno 1944: l’Italia è divisa in due. Mentre da Roma in su tedeschi e fascisti imperversano seminando stragi, deportazioni e razzie, da Cassino in giù sono gli Alleati anglo-americani a farla da padroni. Nell’Italia delle Am-lire, merci e viveri scarseggiano (specie nei grandi centri urbani), o sono a costi proibitivi per i più. Dopo gli sbarchi Alleati del 1943, dopo le bombe sulle città, almeno in quella parte del Paese sta lentamente tornando – magari più che la voglia- il bisogno di vivere. Ma una delle espressioni più vistose che quella voglia si porta, il desiderio di relazioni umani, è inibita dalla superiore esigenza di controllo del territorio, che ha imposto un freno ai traffici commerciali. Così la gente, per sopravvivere è tornata ad una delle forme di più primitive di commercio: il baratto. Il bisogno di mangiare spinge una folla di disperati dei grandi centri urbani a cercare cibo nelle tradizionali riserve contadine del Paese, disponendosi a scambiare qualunque cosa (incluse la virtù per le femmine) in cambio di un pezzo di pane e formaggio.
Questo lo scenario che fa da sfondo alla grande tragedia di cui accennavamo al principio e che la straordinaria compagnia dei giovani allievi dell’Officina Pasolini ha messo in scena in questi giorni al Teatro Ciak.
Da un’idea di Gianni Clementi, grande talento teatrale, che è il demiurgo di quella sezione dell’Officina, con la regia impeccabile di Massimo Venturiello, nasce lo spunto per questa narrazione con il recupero di questo piccolo fatto di cronaca che, per una somma di motivi, è sempre stato confinato ai margini della grande Storia. Abbiamo detto dello sfondo storico nazionale di quei tempi, ma la vicenda è tutta chiusa lungo la tratta ferroviaria Battipaglia-Metaponto, allorché un treno merci composto di 48 vagoni imbarca anche un pugno di viaggiatori nella disperata ricerca di pane e lavoro. Sono quasi tutti campani e molti i napoletani, disponibili a cercare l’uno e l’altro (ma non necessariamente entrambi) in cambio di qualche loro corredo di bagaglio. Il convoglio –già pesante di per sé- è gravato da questa moltitudine di ospiti umani, non necessariamente “di frodo” come lascia dedurre il titolo, perché quasi tutti dotati di biglietto (ma probabilmente la locuzione andrebbe meglio riferita a chi quei biglietti aveva messo in vendita, esponendo il carico umano a quella disgrazia annunciata). Quella faticosa carovana di merci e viventi al valico di Salerno, laddove termina l’elettrificazione delle linee, è costretta a farsi condurre da due locomotive a vapore, caricate con il carbone (scadente) che si trovava. Quando ci si appresta ad affrontare le asperità appenniniche lucane e le strette gallerie, specie quella temuta “delle armi ”, lunga quasi due chilometri, bisognerà che il fochista Luigi Ronga e il suo compagno Espedito, carichino al massimo il carbone per arrivare sani e salvi al valico di Balvano, magari utilizzando l’abbondante neve di quella notte come fazzoletto, da aspirare come rimedio.
Lo sforzo del vapore è al massimo, si viaggia lenti, a non più di 15 chilometri: galleria e convoglio si riempiono lentamente di monossido di carbonio, che pare sia una bella morte, ma una morte comunque, per oltre 600 di quei poveri disgraziati dormienti, consegnati alla commissione d’inchiesta del dopoguerra come clandestini su un treno merci. Ci saranno anche dei superstiti, ma i danni neurologici provocati dalle infiltrazioni della scoria velenosa, saranno talmente pesanti che forse non fu una fortuna essere stati risparmiati dalla morte.
Tra i sopravvissuti, proprio il fuochista Luigi Ronga, con il pretesto drammaturgico della sua deposizione, racconterà alla platea i dettagli di quella sventura senza altri testimoni che lui.
Prima dell’epilogo drammatico, il convoglio ospita di tutto, è un bazar allegro, come allegra sa essere la povertà d’insieme. C’è chi vende, chi declama, chi si trascina ubriaco, chi spera o si dispera, chi balla, chi adesca. Le voci e i dialetti si inseguono e si sovrappongono: non tutto -e per lunga parte del tempo- arriva alla percezione della platea, ma forse l’effetto emporio è voluto, a ricordarci che la nostra lingua, prima delle compromissioni televisive, era un insieme vernacolare e il tempo delle interlocuzioni dell’uno o dell’altro non era regolato da un moderatore.
Ma tutto quello che arriva dal palcoscenico (perfette le scene, i costumi e le sonorità) rimanda un coro di struggimento che premia senza discussioni lo spettacolo.
Insomma anche per il teatro vale quello che si dice dalle parti di Napoli: è il tono che fa la musica.