Queste riproposizioni di spettacoli d’annata, incentrate su un protagonista assoluto, indimenticato cantore della sua contemporaneità e veggente del di là da venire, corrono sempre il rischio dell’azzardo. C’è sempre qualcuno da qualche parte (e in questo caso quel qualcuno sta pure seduto davanti al pc, scrivendo una recensione) pronto al confronto nostalgico con l’originale di mezzo secolo fa, quando Gaber e tutta la temperie del suo momento, si andavano formando o esprimendo. E allora, per schivare quel tipo di azzardo la cosa migliore è proporre uno spettacolo puntando sui contenuti e non (come purtroppo non di rado è accaduto anche nel caso di Gaber) sulla mera celebrazione del suo compianto interprete (che spesso diventa niente più che un furbo scimmiottamento).
Niente di tutto questo accade nello spettacolo in scena in questi giorni al Teatro Sala Umberto (fino al 30 ottobre): Andrea Mirò e il suo impeccabile e versatile compagno di scena Enrico Ballardini, con le musiche arrangiate ed eseguite dal vivo dagli straordinari artisti di Musica da Ripostiglio (Luca Pirozzi, Luca Giacomelli, Raffaele Toninelli e Emanuele Pellegrini), hanno compiuto una vera e propria operazione intellettuale, spostando il raggio di azione di quell’azzardo esclusivamente sulla scommessa di portare in scena (per un pubblico di oggi) -con i monologhi e le canzoni di Giorgio Gaber e Sandro Luporini- l’analisi sulle scorie della transizione verso la modernità che dagli anni Sessanta in poi, continuano a infiltrare la trama delle relazioni umane e la nostra stessa postura nei confronti del reale (costumi di Pamela Aicardi, d’effetto e d’atmosfera le luci di Andrea Violato, adattamento e regia di Emilio Russo).
La ricerca dell’interezza, l’intralcio delle maschere imposte dalle convenzioni sociali, la disfatta dell’innocenza di fronte ai macrotemi della politica e dell’impegno, sono tutti temi che Giorgio Gaber aveva saputo proporre con irresistibile ironia oltre mezzo secolo fa, ma che continuano a essere attuali anche agli occhi dei contemporanei, semplicemente perché quel ciclo di transizione non si è mai definitivamente compiuto e tutti ancora avvertiamo l’urgenza di far finta di essere sani per sintetizzare sbrigativamente le contraddizioni del nostro vivere, rinviando a un tempo indefinito (e che forse non verrà mai) i conti con le proprie identità ed emozioni.
E così, messa da parte la tentazione della pura commemorazione, è come se Giorgio Gaber non ci fosse in questo spettacolo (sarà forse per questo che la sua voce compare in un breve inserto registrato). Ma lui c’è, eccome: e sta tutto nella sostanza del suo impareggiabile porsi in maniera lucida e critica rispetto alle domande della vita.
E la splendida compagnia in scena (un plauso al Tieffe Teatro Milano- Viola Produzioni che hanno sostenuto l’allestimento, con la collaborazione della Fondazione Gaber) riesce a mantenere intatta la dimensione ironica e accattivante dell’insieme, guadagnandosi (anche con un bis –alla maniera di Gaber) la condivisione con la platea. Particolarmente apprezzata dal pubblico la scelta delle canzoni-simbolo di quello spettacolo, tra le quali (oltre a quelle più conosciute e divertenti) una riproposizione particolarmente coraggiosa: L’elastico, che allude alla nostra cagionevole tenuta mentale di fronte ai doveri performanti che la società moderna ci richiede.