In Italia sono oltre 30.000 i minorenni nelle strutture di accoglienza in attesa di essere adottati. Alcuni di loro non vedranno realizzato il sogno di trovare una famiglia ed altri, peggio, ricorderanno con dolore un fallimento adottivo. Molti trovano invece dei genitori per sempre.
Con queste parole si chiude Dear Mama, documentario nato per volere del pediatra e giudice del tribunale per minorenni Pietro Ferrara, prodotto dalla Società Italiana di Pediatria, scritto e diretto da Alice Tomassini.
Un documentario semplice ma d’impatto che mostra la dura verità dietro le adozioni in Italia, al di là di dati e percentuali: Alice Tommasini si concentra infatti su tre storie, quella di Cristina, Fabio e Dorina che si raccontano a cuore aperto davanti alla telecamera, ognuno secondo le proprie inclinazioni naturali.
Cristina è un talento nato della comunicazione, le sue parole sono forti, d’impatto. Racconta la sua storia fatta di violenze e abusi con una lucidità inimmaginabile per una vittima di violenze domestiche, un vissuto che l’ha segnata e cambiata per sempre. La fermezza delle sue parole è il fulcro centrale dell’opera: grazie a lei viene compresa la difficoltà del sistema educativo italiano a riconoscere e denunciare situazioni di difficoltà per i giovani che non riescono da soli a denunciare e, talvolta, neanche a riconoscere il dramma che stanno vivendo.
Ma Cristina è anche unica nel suo genere. Un cospicuo numero di fondi d’archivio utilizzati nel documentario, infatti, è costituito dal materiale fornito da Cristina stessa che dall’età di otto anni ha preso a riprendere ciò che accadeva nella sua abitazione.
Nella conferenza stampa seguita alla proiezione di Dear Mama al Rome International Documentary Festival ha spiegato come quelle testimonianze fossero nate da un desiderio, più o meno inconscio, di imprimere nella memoria quelle immagini per poi un giorno rielaborarle e renderle fruibili per chi avesse voluto ascoltarla. Spiega come non ci sia dolore o paura nel rivederle ma solo consapevolezza. La straordinarietà del suo archivio risiede nell’intenzione: trasformare il male, la sofferenza e la violenza in bene, in un qualcosa di prezioso che possa smuovere le coscienze.
Lo stesso intento viene perseguito da Fabio, il secondo protagonista, ma attraverso la musica. Fabio è un rapper che nella sua arte ha trovato la forma prediletta in cui esprimere i suoi sentimenti e narrare la sua storia. Sempre con un sorriso sulle labbra racconta alla regista della sua famiglia allargata, fatta di sorelle e fratelli con cui condivide la madre o il padre, ma che sente come fratelli di sangue, così come avviene anche con i compagni della scuola-famiglia con cui crea un legame solido e profondo. Alla base di ogni storia c’è sempre un vissuto drammatico, difficile da raccontare, ma che non esclude mai l’importante atto della condivisione.
I filmati di Cristina e le canzoni di Fabio sono mezzi d’evasione che i protagonisti sfruttano per condensare in forme accettabili il loro dolore ma che allo stesso tempo gli danno modo di ricominciare. Entrambi sono riusciti ad accettare il passato, hanno imparato che una rinascita è possibile e che possono essere come tutti gli altri ragazzi, così come desideravano da bambini.
La consapevolezza straordinaria e la maturità che Cristina e Fabio dimostrano di aver acquisito per un attimo ci fanno dimenticare che si tratta pur sempre di bambini che hanno dovuto affrontare tante difficoltà da soli, senza qualcuno che si prendesse cura di loro. A ricordarcelo invece è Dorina, la protagonista più piccola che, come i suoi compagni, ha trovato la sua forma d’evasione. Alla telecamera racconta storie di pirati e principesse con protagonista la piccola Sofia, suo alter-ego.
La favola, da sempre arma dei bambini, è per lo spettatore una forma di consolazione, un momento dolce e leggero in un documentario che ci mostra una verità difficile da digerire: fallimenti di adozione, genitorialità negata o persa, minacce, abusi e violenze a danni di bambini. Dopo tutto quello che racconta Dorina è un’eucatastrofe di tolkeniana memoria, una visione fuggevole della Gioia oltre le muraglie del mondo. Un finale felice, di chi dopo tante sofferenze vede riacquisito il diritto di essere bambino, di giocare, ridere e, ancora una volta, di sognare.