L’ 8 agosto scorso ha debuttato al Teatro Antico di Segesta l’ Edipo a Colono, per la regia di Gina Merulla. La rappresentazione è una delle prime nazionali che Claudio Collovà, nuovo direttore artistico del festival, ha coraggiosamente deciso di proporre. Edipo è interpretato dal Maestro Mamdou Dioume, uno tra i maggiori interpreti del panorama del teatro contemporaneo internazionale e già attore di Peter Brook.
Ho avuto l’onore e soprattutto il privilegio di poter intervistare il Maestro proprio in occasione della rappresentazione che per tre giorni ha incantato il pubblico del Segesta Teatro Festival. Questa rappresentazione, dalla lettura e dai colori contemporanei, mi ha dato modo di indagare sul suo lavoro proprio in relazione al personaggio che Mamadou interpreta sul palcoscenico.
Edipo a Colono rappresenta lo specchio dell’essere umano e ne riflette la natura profonda. Edipo, ormai anziano, viene mostrato come un uomo cieco che vive in scena sentimenti come la paura o il sentirsi diverso. Nel suo lavoro, come attore e regista, si può trovare la stessa natura profonda, essere il personaggio, viverlo, mostrarsi anche a volte diverso?
“Entrambe le cose possono andare di pari passo secondo me. Quello che attingo sul palcoscenico mi serve anche per quello che io definisco l’infinitamente grande, che è il quotidiano. L’attore deve essere molteplice, una molteplicità che lo aiuta e che lo nutre. Anche se partiamo sempre dalle nostre convinzioni, il teatro in senso lato, attraverso danza, musica e parola, aiuta a far uscire questa molteplicità e allora un emozione sconosciuta può sorgere. Se durante la condivisione di questo momento sento che chi mi guarda, il pubblico, è agganciato a me qualcosa succede … lascio che le cose fluiscano.”
Il lavoro sull’attore che porta avanti con Peter Brook, con il Mahabharata e poi anche con Shakespeare, quanto questa esperienza, di vita e lavoro, l’ha cambiata rispetto alla sua formazione in Senegal?
“Peter Brook mi ha inspessito perché si è focalizzato sul mio percorso. Quello che mi è molto piaciuto è questo rapporto umano che si è creato con lui, Brook indicava la strada ma non ti accompagnava mai e partendo dal Mahabharata mi disse di fidarmi del mio corpo. Un giorno mi guardò dritto negli occhi e mi disse – Be Yourself – sii te stesso.”
Interpretare Edipo qui, a Segesta in questo momento storico, cosa significa per lei?
“Vuol dire anche andare sulle orme dell’antichità, che non è come tornare indietro ma neanche come reiterare l’antichità. Chiunque deve sentire la presenza di Edipo soprattutto in questo luogo, con queste pietre che sfidano il tempo e che hanno assorbito tante cose e tanti significati. Cosa ci sussurrano questi personaggi? la loro storia ci riguarda per quanto siamo esseri umani, in rapporto a tutto quello che viviamo ogni giorno.”
Durante lo spettacolo il pubblico si trova, come il protagonista, straniero in terra straniera. Come Edipo, lei si è mai sentito straniero in terra straniera ?
“Si, anche nel mio paese. Ho appreso ad accettare le altre culture e a rispettarle, riuscire ad integrarsi nel senso interiore, da essere umano ad essere umano, con tutte le differenze e le similitudini che ci contraddistinguono. Il Radicamento e l’ Apertura sono due pilastri che abbiamo in Senegal, aprirsi per collegarsi all’altro e costruire un ponte. In Senegal dicono che bisogna essere come un albero, avere le radici profonde e i rami che si aprono verso il cielo. Le radici sono nella nostra terra, nella nostra cultura e in quello che siamo, ma poi sono i nostri rami che si devono aprire verso il cielo.”
Il Teatro è un Rito, destino collettivo, spogliato di ogni decoro, illusione, come anche in questa rappresentazione di Edipo a Colono, anche qui assistiamo ad un Rito collettivo e in che modo questo viene portato sulla scena?
“Partirei dal suggerire, non è un culto che devo praticare il teatro. Peter Brook sosteneva il teatro sacro, e il teatro profano”. Gina Merulla, regista dello spettacolo, racconta che “In questo Edipo a Colono c’è la voce, il pezzo Sofocleo è in background, noi ci affidiamo praticamente all’emozione che viviamo e raccontiamo attraverso il corpo. Essendo una messa in scena che passa dal lato emotivo, dalla pancia, ci avvolgiamo di questo e prendiamo il pubblico e lo conduciamo in questo viaggio, insieme a noi. In questa rappresentazione non si tratta di capire ma di sentire. Non bisogna avere preconcetti ma bisogna aprire ed aprirsi, quindi sentire lo spettacolo e sentire quello che gli attori ti fanno arrivare.”
Foto in copertina di Marco Intermite