A 21 anni dalla morte, Indro Montanelli, uno dei più importanti ed influenti giornalisti del secolo scorso, con un passato – come molti a quel tempo – prima tra le file del partito fascista, poi imprigionato dallo stesso regime in qualità di dissidente politico, è ancor oggi argomento d’opinione pubblica.
Da molti considerato come un uomo d’altri tempi, dai principi ferrei, intransigente e fautore del libero pensiero, Montanelli si definiva come “una voce fuori dal coro” – non a caso fondò nel 1994 la testata La Voce in uno dei suoi ultimi progetti, sottolineando la necessità di creare un giornale di destra liberale, poi crollata a picco dopo solo un anno -, libero dalle catene propagandistiche della politica e tanto anticonformista e provocatorio da stringere la mano agli esecutori materiali del suo attentato a Milano nel 1987, rivendicato successivamente da quel poco che rimaneva del gruppo storico delle Brigate Rosse.
Nostalgico di una destra nobile, non fece mai realmente i conti con il fantasma del Natale passato, quell’ombra in camicia nera e doppiopetto che aveva portato l’Italia in guerra al fianco di Hitler, per poi abbandonarla a se stessa dopo l’8 settembre del ’43, illudendo l’intera popolazione di un “Tutti a casa” generale, quando in realtà, la storia ci insegna, che la fine fu solo l’inizio.
La fama contemporanea di Montanelli è però per lo più debitrice, non già delle sue qualità di letterato, scrittore ed intellettuale, quanto piuttosto dell’ambiguità della sua figura e del suo impatto simbolistico nell’ambito della millenaria questione razziale.
Il dibattito da alimentare però riguarda non solo Montanelli, ma più in generale tutti i meritevoli di lode per le loro gesta artistiche: fin dove è giusto che uno dei padri del giornalismo italiano, uomo simbolo del Corriere della Sera, fondatore de Il Giornale dell’editore Silvio Berlusconi, oppositore di quest’ultimo in fatto di libertà dalla linea politica dettata dal Cavaliere, debba esser presentato in modo unilaterale ai giovani – ossia coloro che scriveranno la storia del futuro – come il personaggio italiano simbolo del suprematismo bianco a causa dell’acquisto e del matrimonio con una giovanissima dodicenne nera in Etiopia?
La magra consolazione de in «Abissinia si fa così» – dal sapore d’amnistia alla «abbiamo solo eseguito gli ordini» – non può assolvere lui, così come non può garantire la giustezza del metaforico vandalismo della statua milanese del giornalista – l’ennesimo, italianissimo, inconsapevole scimmiottamento del modello americano – sulla lunga scia delle lotte iconoclaste del 2020 dopo l’assassinio per soffocamento dell’afroamericano George Floyd per mano della polizia a Minneapolis.
Ritorniamo quindi a quella “sindrome dannunziana” che vede il merito dell’arte in senso generale, oscurato dal più che comprensibile disdegno nei confronti delle questioni private, per lo più umane e politiche. Così i più recenti scandali sessuali che hanno travolto lo star system di Hollywood a partire da Harvey Weinstein e Kevin Spacey (sfiorando anche Johnny Depp nella celebre soap giudiziaria con Amber Heard), hanno de facto decretato non solo la fine della loro carriera, ma anche una damnatio memoriae nei confronti di ciò che gli era stato riconosciuto come prodotto artistico di livello.
La domanda che sorge spontanea è: si può scindere l’attività artistica da quella privata, oppure è doveroso giudicare a posteriori il prodotto artistico “contaminato” dall’immoralità umana? Proprio per questo motivo, ai posteri l’ardua sentenza.
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