Pomeriggio assolato nella splendida cornice del Circolo Canottieri Roma. Un divano, due poltrone, un tavolino e un vassoio con dolcetti e caffè. Registratore acceso. Iniziamo a parlare.
Mi è venuto spontaneo scrivere queste parole in corsivo, come si fa con le didascalie in un testo teatrale, perché, più che un’intervista è stato uno spettacolo: una chiacchierata in libertà sulla vita reale e quella teatrale, sul Tempo, sulla psicologia dell’esistenza, tra ironia e profondità.
E teatro sia, dunque.
Il protagonista è Emanuele Salce, classe 1966, figlio di Luciano Salce – attore, regista e sceneggiatore di grandissimo talento – e figliastro di Vittorio Gassmann – altro mostro sacro dello spettacolo italiano -. Emanuele è a sua volta regista e uomo di spettacolo; ma soprattutto, è un Uomo, parola che racchiude il senso di umanità che tutti dovrebbero avere e che, invece, è sempre più raro incontrare.
Ha un’eleganza naturale. Non mi riferisco solo agli abiti che indossa, ma al modo in cui cammina, al suo portamento e comportamento. Nel suo sguardo il mondo non passa mai inosservato, anzi si trasforma in uno specchio in cui guardare se stesso; ha l’aria di chi vince la propria riservatezza passo dopo passo, con gentile disponibilità al dialogo, mettendosi discretamente in discussione, se necessario. Il sorriso c’è sempre, anche quando abbassa gli occhi e riflette su una domanda che lo tocca da vicino, anche quando scava. Non smette mai di scavare. Va in profondità persino se parla della temperatura di questa estate anticipata, anomala, bollente.
Il suo nome significa “Dio è con te” e, nell’antichità, rappresentava una formula benaugurale, una promessa di successo. In effetti è ciò che si percepisce nell’averlo vicino: schivo e umanamente lontano dal finto successo dei rotocalchi scandalistici, possiede la straordinaria capacità di relazionarsi agli altri con naturalezza. Per Emanuele prevale l’essere sull’apparire. È un traguardo difficile da raggiungere.
È proprio dal nome, dunque, che, improvvisata drammaturga di questa intervista, ho scelto di partire. Un acrostico come trama, che disegni l’Uomo chiamato Emanuele. Beckett e Ionesco perdonino l’inadeguato sconfinamento nell’assurdo.
E di Errabondo
La vita è un viaggio che difficilmente segue una linea retta: per andare da un punto all’altro si gira, si rigira, si torna indietro, si va avanti, ci si allontana. E si impara sempre qualcosa.
Sia in Mumble, Mumble, sia in Diario di un inadeguato la trama è tessuta con fili di psicanalisi: un percorso importante, soprattutto per un attore, chiamato a relazionarsi non solo con se stesso e con la cerchia delle proprie conoscenze, ma con un pubblico vasto, con le tante persone che hanno un’idea di lui spesso completamente scollata dalla realtà.
Mi racconti un pezzetto del tuo viaggio interiore?
Credo che mi abbiano messo prima sul lettino dell’analista che sul fasciatoio, ma ho un buon ricordo degli psicanalisti infantili perché avevano una grande sala giochi e il tuo unico impegno era giocare. Al resto pensavano loro. Ti osservavano, interpretavano ciò che facevi, i disegni che realizzavi … Mi è quasi dispiaciuto interrompere. Fosse per me avrei continuato lì, con loro, anche da grande.
Il mio viaggio interiore credo sia iniziato quando ho preso coscienza della coscienza. Mi sembrava una cosa fighissima, un mio luogo segreto nel quale nessuno poteva accedere se non invitato da me. Potevo segretamente pensare cose diverse da quelle che dicevo nel momento stesso in cui le dicevo, pensavo di avere un superpotere. Non molto tempo dopo però compresi con mia somma delusione che ognuno (più o meno) disponeva della stessa facoltà e che non ero più un supereroe.
Comunque, fatta questa debita premessa sull’impossibilità di narrare la psicanalisi del me bambino, posso dire che è, poi, arrivato un momento, nella mia vita, in cui andare in analisi è stata una libera scelta, improntata ad una maggiore consapevolezza di me ma anche degli altri, tanto che una delle prime cose che capii è che, se ci fossero andati i miei tanti genitori, in analisi, invece di mandarci me, avremmo risolto prima.
Ma va bene così. Ognuno è quello che è destinato a divenire. Poi ti prendi le tue responsabilità e vai.
Oltre ai tuoi due padri, sei figlio anche di qualche paura, dunque.
Accidenti, sì! L’importante è avere il coraggio di affrontarle. Io ho sempre avuto la paura di esistere, di essere, di non essere; a volte mi faceva paura anche l’idea di me, del modo in cui volevo essere nel mondo, che è spesso un riflesso delle aspettative altrui: inizialmente ci si instrada nel tentativo di essere quello che gli altri vorrebbero che fossi; poi esci dalla gabbia, ma solo per trovare le sbarre di ciò che tu vorresti essere, delle tue aspettative: un altro finto te, che corrisponde ad un’idea, che possa farti sentire accettato dagli altri.
La maschera.
L’artifizio. Ed è lì che molti si perdono nel loro percorso.
Io ho avuto la fortuna di avere sfortuna e, grazie a questo, ho dovuto aggiustare il tiro, cambiare la strada. In questo modo sono giunto alla consapevolezza. Altri, invece, hanno avuto la sfortuna di avere fortuna subito e, quindi, sono rimasti insieme a quel sé ideale che si sono creati.
Ad un certo punto devi quasi morire, metaforicamente parlando, perché il reset deve essere totale. Questo è il vero riscatto della crescita, altrimenti si resta incompleti.
Ed è ciò che ho portato in scena con Diario di un inadeguato.
La tua famiglia ha avuto un ruolo importante, dunque, nella tua formazione psicologica e caratteriale. Nel bene come nel male.
Diciamo che vengo da tutt’altro che un ambiente familiare canonico, (ammesso che ne esistano). In realtà non ne ho mai visti. Tutti formalmente ‘rappresentano’ questa cosa, ma è spesso solo facciata. La mia era solo più dichiaratamente caotica. Del resto, gli artisti vivono tanti piani contemporaneamente e quello familiare è solo uno di essi.
Io stavo a casa con mia nonna e con la bambinaia. La mia infanzia, sotto questo punto di vista, non è stata differente da quella dei figli di molti altri professionisti. L’unica differenza è che, trattandosi di personaggi noti, finivamo spesso sui giornali. Quindi tutte le dinamiche interne diventavano improvvisamente esterne e nemmeno ben filtrate.
Mi sono sempre sentito dire: “Eh, beato te, con due padri come quelli …!”. La gente ti immagina come se vivessi all’interno di una reggia dorata, priva di problemi. Non conosce la realtà e nemmeno vuole conoscerla. Vuole credere al mito; vuole sognare e non puoi strapparle il sogno con la verità. All’inizio ci provavo a spiegare le cose; a volte ho ingenuamente chiesto aiuto, ma tutti mi rispondevano: “Ma come? Aiuto di cosa?” e ricominciavano con il mantra di sempre: “Beato te che…”. Quando ho capito come funzionava, ovviamente, ho cercato di navigare nel mare della vita contando prevalentemente su me stesso, facendomi carico di tutto, anche delle mie ansie. Mi mancavano i fondamentali, il mondo non me li aveva dati, ma me li sono in qualche modo procacciati (a costi altissimi).
Così comincia l’avventura umana: smetti di cercare alibi e fai i conti con la realtà che è quella che è e non quella che avrebbe dovuto essere (che avresti voluto che fosse…).
M di Magma
Leggendo le tue tante esperienze, i tuoi tanti concorsi ho pensato ad una colata lavica: inizialmente traccia sentieri che vanno in direzioni differenti, poi lentamente si ferma, si assesta e quindi si raffredda, si solidifica, diventa preziosa ossidiana. Hai imboccato molti sentieri lavorativi. Ne parliamo?
Feci una serie di concorsi che, però, erano sfide con me stesso e, indirettamente, anche con la mia famiglia; sfide mosse da una certa mancanza di fiducia nei miei confronti. Feci una scuola di volo per diventare pilota e vinsi persino il concorso in Alitalia, ma non mi presentai mai. Passai le selezioni per entrare alla Luiss, ma poi non intrapresi quegli studi universitari, perché c’era l’obbligo di frequenza. Superai anche il test di Mensa Italia.
Ecco, questo mi incuriosisce molto. Qui parliamo di quozienti intellettivi importanti.
Ero giovanissimo, quando lo feci. Si trattava di varie prove di logica, associazioni mentali e di sequenze matematiche molto difficili. Ricordo che si andava a piazzale Flaminio, presso uno studio notarile, e il test durava quattro o cinque ore. Era molto complesso. La prima volta che lo tentati avevo diciotto anni e fallii per l’1% (tre domande su mille forse). Ritenta l’anno dopo e lo superai. Dopo di che andai qualche volta a questi incontri, ma mi sentivo un pesce fuor d’acqua: erano tutti ingegneri, matematici, persone intelligentissime. Pensai di avere poco a che spartire con loro e smisi di andarci.
In Italia molti non sanno nemmeno cosa sia. Negli altri Paesi, invece, il Mensa è un valore aggiunto, puoi metterlo addirittura nel curriculum. Qui se dici Mensa pensano alla Caritas.
Ma, ripeto, erano tutte sfide, le mie.
Superavo i test e poi mollavo. La mia paura era fare una cosa seriamente, protratta nel tempo e soprattutto con convinzione, cosa che io non avevo. A quindici o sedici anni mi chiedevo cosa mi piacesse fare e l’unica mia certezza era quella di non avere certezze. Come faccio – mi chiedevo – ad includere od escludere quel piatto che cucinano in Kamchatka se non l’ho mai assaggiato? E da questa idea è nata la mia predisposizione ad “assaggiare” le esperienze della vita. Mi sembrò una cosa sensata, almeno fino a quando non capii che era solo un grandioso alibi.
Alla fine, però, la tua strada l’hai trovata.
Cominciamo col dire che ho approcciato la mia attuale professione abbastanza tardi. A quarant’anni. Quasi per gioco ma soprattutto per necessità.
“Un po’ per celia, un po’ per non morir” direbbe Butterfly. Gioco fino a un certo punto, però. Hai seguito anche il corso di regia al Centro Sperimentale di Cinematografia.
Un’altra delle mie sfide! Ho seguito il corso di regia, sì. Era l’anno in cui morì mio padre, però, e nella mia vita si stavano intrecciando diversi piani, quello dell’impegno e quello del dolore, generando un gran papocchio.
Parlo di sfida, anche perché non sono mai stato incentivato, in famiglia, a seguire la strada dei miei papà, a differenza di altri figli d’arte. Mai incoraggiato e, anzi, semmai affettuosamente sconsigliato: “Questo non è un mestiere …”, mi dicevano; “Trovati un lavoro vero …”. Poi vedevo tutti gli altri figli – e ne conoscevo tanti – che sin da giovanissimi facevano comparse o comunque erano sempre partecipi dell’attività familiare. Non che io avessi questa smania, intendiamoci. Io stesso pensavo che il lavoro nello spettacolo non fosse una strada percorribile, per me.
Non l’ho mai considerata ereditabile geneticamente, peraltro. Dei figli d’arte, a ben guardare, solo uno su cento ce la fa veramente. E poi, i grandi non sono mai stati figli d’arte vedi Totò, Brando, De Sica, Gassmann, Mastroianni, Sordi…
Diciamo che, all’inizio, ritenevo che, per essere grandi, non si dovesse essere figli d’arte; col passare del tempo e con il crescere della mia consapevolezza, invece, sono andato oltre e ho capito che non bisogna essere grandi tout court.
Bisogna solo essere se stessi.
Quindi è un mito pensare che il figlio d’arte abbia più porte aperte.
Un falsissimo mito. Certo, il cognome è quello, spesso ti dicono: “Uh, quant’era bravo tuo papà, quant’era simpatico”, ma finisce lì. Nessuno ti dice: “Ecco, questi sono 50.000 euro per produrre un tuo spettacolo”. Tutto questo è nella fantasia di quelli che ti dicono “Beato te che…!”. Così come va detto per onestà, che molti, se non avessero avuto il padre in vita a spingerli e ad imporli, non sarebbero mai andati avanti. Questo sicuramente.
Anche perché nel mondo dell’arte, ancor più che in qualunque altro mondo, deve giustamente valere la bravura, bisogna saper dire qualcosa, altrimenti l’arte viene meno. Non basta il cognome.
Cominciamo col dire che questo non è un paese fondato sulla meritocrazia e che un cognome famoso è comunque un’arma a doppio taglio.
Nel mio caso però, avendo avuto rapporti complicati, sia con mio padre per l’eccessiva assenza, sia con Vittorio per l’eccessiva presenza – una presenza non semplice, spesso conflittuale, praticamente una guerra, almeno nei primi venticinque anni – è stato quasi naturale allontanarmene fin da subito. Mi sono detto: “Questi due qui fanno quel mestiere lì, deve essere quel mestiere allora che rende gli uomini così… quindi io farò altro”.
Scuole o scuola di vita? Quale accendiamo?
Credo che la scuola sia un comparto della vita.
L’importante è comunque essere allievi sempre. C’è sempre da imparare nella vita. Se il tuo allievo interiore è vigile, desideroso di imparare, può migliorarsi sempre. Di maestri la vita ne offre tanti.
A di Attore
Tu hai fatto il regista, hai scritto, hai lavorato con Pergolati alla biografia di Salce …
Un libro necessario, che ho volutamente affidato a Pergolati, grande “salcista”, laureatosi con una tesi su mio padre. Abbiamo messo mano in due su tutto il materiale che avevo, ma il libro è opera sua. Ci tengo a sottolinearlo perché ho fermamente voluto che fosse così: non doveva essere il libro di un figlio sul papà, ma una monografia su un uomo di spettacolo scritta da mani esterne.
Non esisteva un volume così e ho voluto colmare questo vuoto.
… hai anche lavorato molto, e bene, come attore. Ti senti più regista o più attore?
Non lo so. È vero che abbiamo questa necessità di incasellare, ma si può vivere anche non sapendolo.
In questo momento faccio più l’attore di teatro. Ed è stato alquanto inaspettato. Il piacere di stare sul palcoscenico io non l’ho mai avuto. Stare davanti a un pubblico pensando “Eccomi, sono io!” era una cosa abbastanza estranea alla mia natura. Poi ho pensato che, proprio per la mia ritrosia a mettermi sotto i riflettori, anche recitare potesse essere una sfida e una sorta di terapia di gruppo al contempo.
Ma sei stato assistente di Ettore Scola, di Dino Risi e di molti altri grandi registi.
Sì, è vero, ho fatto il loro assistente.
Ho lavorato su molti set, ho avuto la fortuna e il privilegio di stare vicino a dei veri e propri mostri sacri. Certo, oggi, con l’esperienza di vita acquisita, passare anche solo un pomeriggio con Ettore sarebbe ancora più formativo. Pagherei per poterlo fare.
N di Nutrimento
La vita ci nutre inaspettatamente, a volte. Persone importanti segnano la nostra crescita, professionale ed umana. Ettore Scola è stato, quindi, un punto di riferimento importante per te, giusto?
Assolutamente sì.
Ettore era un grande amico di Vittorio e anche di papà, nonostante fosse una decina di anni più giovane. Lui e papà avevano scritto un programma per la televisione che si intitolava Le canzoni di tutti. Iniziarono così. Ricordo che, successivamente, li prese anche Dapporto come autori per le sue scenette, ma poi li licenziò, perché osarono scrivere una scenetta su una défaillance sessuale e Dapporto, vivendo sul mito del latin lover, la trovò lesiva della sua immagine. Così disse che non c’erano intenti comuni, augurò loro tanta fortuna e li liquidò.
Papà diede ad Ettore anche il copione de Il Federale e de La voglia matta e lui ci mise mano, lo aiutò sicuramente a migliorarlo.
Quando misi in scena il mio spettacolo, venne a vederlo un paio di volte e, poi, mi invitò a casa sua. Restammo un pomeriggio intero a parlare. Lodò molto il fatto che io avessi trovato una mia strada, differente da quelle paterne, e mi diede preziosi consigli anche sullo spettacolo.
Forse lui è stata la figura più vicina ad un mentore.
Per il resto non ho avuto maestri particolari.
Diciamo che ho dovuto arrabattarmi. Ho preso un po’ qua un po’ là. Veri punti di riferimento non ne ho avuti. Forse anche perché ho sempre cercato il caos, pur lamentando la mancanza di calma. Cercavo alibi che giustificassero la mia realtà, e, finché non ho interrotto questo loop, non ho potuto relazionarmi bene con nessuno. A partire da me stesso.
U di Ubi consistam, punto stabile di appoggio
Mi pare di aver capito che i tuoi papà non siano stati un vero e proprio punto d’appoggio, nella vita.
Più che due padri sono stati i due mariti di mia madre, perché come padri avevano davvero poca vocazione.
Eppure, alla fine, l’ubi consistam l’hai trovato da solo, in te stesso. E, forse, questo lo devi, in parte, anche alla loro incapacità di essere padri.
Quello con il padre è un rapporto spesso cercato, voluto, amato, odiato, proprio perché consente di percorrere strade conoscitive del sé. Il mondo del teatro e del cinema ne serbano meravigliose icone: da Sofocle a Shakespeare, da Pirandello a Strindberg, da De Sica a Mulligan, da Burton ad Akin.
È corretto dire che sei riuscito a trovare i tuoi padri più nella mediazione dell’arte che in un rapporto diretto? Mi riferisco ai due documentari che hai realizzato: L’uomo dalla bocca storta, splendida narrazione in immagini di tuo padre Luciano Salce, e La lunga strada, che racconta Vittorio Gassmann.
Sicuramente qualunque percorso io abbia intrapreso, nella vita, mi ha avvicinato a loro, anche se la vera comprensione reciproca, realizzata in ultimo solo con Vittorio, è inevitabilmente estranea a forme di spettacolo.
Il documentario su papà nasce dal tentativo di mettere ordine tra i suoi ricordi, o, meglio, tra i documenti che rievocavano in me alcuni ricordi. Ho cercato di realizzarlo con l’ironia che gli era propria. Non si è mai preso troppo sul serio e non credo avrebbe amato essere celebrato con enfasi. Neppure la Morte ha preso sul serio, a pensarci bene. Quando gli dissero che aveva pochi mesi di vita, smise la chemioterapia, acquistò una barca e, finché il fisico resse, andò per mare, godendosi la vita, onorandola.
Di quel documentario ricordo anche delle interviste improvvisate che facesti in via Salce. Simpaticissime.
Fu una cosa del tutto casuale: volevo documentare il fatto che ci fosse una via intestata a Salce e cominciai a sentire le persone che passavano. Chi non sapeva chi fosse, chi millantava di ricordarlo, ma poi, lo collocava nel programma Candid Camera al posto di Nanni Loy; alcuni risposero anche in modo seccato, intimandoci di abbassare la telecamera. Ho voluto inserire questo passaggio tra la gente in chiave puramente salciana.
Di quel documentario ho tagliato tantissima roba, volevo evitare la ridondanza di lodi. Per me era importante soprattutto raccontare la vicenda umana di papà, la sua storia personale, quello che c’era dietro la bocca storta. Far convivere l’uomo con la maschera pubblica, e siccome l’uomo non lo conosceva nessuno perché lui non l’aveva mai rappresentato, ci ho pensato io.
Nel 2002, poi, feci anche un breve documentario, di trentasette minuti, su Vittorio. C’era molto suo materiale video parlato. Negli ultimi quando registrava Gassman legge Dante o Cammin leggendo, andava spesso dall’operatore e raccontava e si raccontava …Esistono quasi duecento ore di dietro le quinte. Ne traemmo con Tommaso Pagliai un racconto del suo essere attore, del suo essere Gassman e di come questi due aspetti coesistevano in Vittorio.
Ti è piaciuta la mostra per il suo centenario?
Molto bella, c’è molto Gassmann, che, poi, è quello che la gente ricorda, ma forse c’è poco Vittorio. Ecco, io avrei aggiunto qualcosa in più della parte intima. La gente non lo conosce veramente nella sua complessità. Nessuno immagina che Vittorio potesse essere anche una delle persone più ironiche ed autoironiche che il mondo abbia avuto, ma poteva esserlo solo in privato ed in particolari momenti in cui il non dover essere trincerato dietro Gassman glielo consentiva.
Sei cresciuto con lui, l’hai conosciuto bene e, come dicevi, in ultimo vi siete anche riavvicinati. Come è accaduto?
Nella nostra maturità, verso i suoi sessant’anni e i miei venti, ci siamo incontrati, quasi conoscendoci per la prima volta.
La seconda parte della sua vita si ripiegò un poco su se stesso; non si trattò di una vera e propria depressione, quanto di un’improvvisa consapevolezza di non essere eterno, di non reggere più il quinto set a tennis, di non essere invincibile, di essere semplicemente un uomo, come tutti, con i dubbi, gli errori e i rimpianti che tale condizione comporta. Si accorse di essersi distratto dagli altri per qualche decennio. Era come se fosse salito su un treno che non aveva mai smesso di correre per quarant’anni e che era arrivato fin su Marte. Nelle poche stazioni di passaggio aveva avuto mogli, figli, ma quasi senza accorgersene o senza che questi lo distogliessero da sé. Quando realizzò, fu aggredito dai sensi di colpa. Cercò di rimediare. Iniziò con l’incontrare le persone nei confronti delle quali riteneva d’esser stato manchevole. Io ero tra queste. Quindi, tra noi, cominciò un bel dialogo, molto intenso, cosa prima di allora impossibile. E negli ultimi suoi dieci anni siamo stati molto uniti, anche professionalmente (che era il modo più semplice per stargli vicino): fui suo assistente e un paio di volte mi buttò persino in scena.
Di questo ne sono molto felice, felice di aver recuperato un rapporto fondante la mia esistenza. Lui fece un passo verso me ed io ne feci subito dieci per abbracciarlo.
Con mio papà invece non ci sono riuscito: è morto che ero troppo giovane, non ci fu né il tempo, né sufficiente consapevolezza. Con Vittorio è stato come avere una seconda chance e non me la sono fata scappare.
E di Età della vita
Il passato che tutti abbiamo sulle spalle, il presente e il futuro. Qual è il tuo rapporto con le età della vita? Il passato è realmente passato o permane nel presente?
Avevo vent’anni quando ebbi per la prima volta la percezione del passato. Realizzai di non essermi accorto del passaggio del tempo: mi sembrava che fossi nato ieri.
Poi ne ho compiuti quaranta e ora nel ho cinquantacinque.
Quello che ho capito è che l’unica vera responsabilità che il tempo ci impone è sapere cosa farne, tenendo a mente che non sappiamo nemmeno quanto ne abbiamo. Evito di dire che bisogna vivere ogni giorno come fosse l’ultimo, perché l’ho sempre trovato un monito esagerato. Ma consapevolmente, si.
Negli ultimi anni, ho cominciato a concedermi più cose, ad abbandonare la severità di prima. Mi piace viaggiare, ad esempio, e appena posso parto. Senza sensi di colpa.
Io, all’inizio, contestavo i valori sociali precostituiti, i modelli, i comandamenti – anche perché sono andato a scuola dai preti e, di qui, probabilmente le radici del mio essere ateo -, ma la contestazione esasperata ti fa perdere di vista la bellezza e tutto ciò che dà valore al tempo.
Insomma, nutro grande rispetto per il tempo e, senza diventarne ossessionato, senza avere continuamente in testa il ticchettio dell’orologio, cerco di farne buon uso. È l’unica cosa che non si può comprare e che non ritornerà. Non è “rinnovabile”.
E quanto incide il tuo passato sulla progettualità futura?
Noi siamo la risultante di ciò che abbiamo fatto, di ciò che ci è stato fatto. Quindi non so se si stacca con il passato. È il famoso bagaglio. Cambia solo il modo di portarlo. All’inizio te lo carichi sulle spalle ed è un baule pesante, poi col tempo scopri che ha anche le rotelle e che, addirittura, ci possono essere dei corrieri che te lo portano volendo. Per molto tempo sono stato uno sherpa di me stesso sulle montagne, e avrei potuto semplificare, ma non rimpiango le asperità esperite. Forse è proprio ciò che mi serviva per arrivare dove sono.
Arriviamo al futuro, anche prossimo. Progetti?
Riprenderò Diario di un inadeguato, che in questa stagione ho fatto solo per cinque sere a causa di tutti i problemi organizzativi legati a questi due anni di pandemia.
È uno spettacolo nato quasi per caso. Mi hanno chiamato un pomeriggio Silvano Spada e Carmen Pignataro dell’Off-Off Theatre di via Giulia, chiedendomi un testo inedito per la stagione.
In realtà, la chiamata di Carmen non è stata casuale, ma si è inserita in quel minimo sindacale di attività artistica che ci è stato concesso di fare in pieno periodo pandemico. A teatri chiusi, Gigi Marzullo aveva preso a convocare attori all’Off-Off affinché mettessero in scena lo spettacolo che il covid gli aveva negato o una parte di esso, dopo di che ne estrapolava una parte e la trasmetteva. In quell’occasione ho letto un paio di lettere del nutrito carteggio di papà, un mondo di lettere che rappresenta uno spaccato dello spettacolo italiano e non solo.
L’idea è piaciuta tanto che mi hanno proposto di realizzare uno spettacolo intero su questo.
Poco tempo dopo sono tornato all’Off-Off con un paio di paginette di progetto teatrale sul carteggio, ma Silvano ha pronunciato delle parole magiche che mi hanno fatto cambiare strada e per le quali ancora lo ringrazio: mi ha chiesto se quello sul carteggio fosse lo spettacolo che avevo veramente voglia di realizzare. “Io voglio che sia uno spettacolo che senti, che vuoi fare, che ti diverte fare”.
L di Ludus
Parole magiche davvero: piacere, divertimento, gioco se vogliamo. È realizzabile?
Sicuramente. È la meta vera: riuscire a fare qualcosa che diverte, che piace, che porti nella vita una ventata di gioco. Nella tua e in quella degli altri. Ma il gioco non è mai solo tale. Si gioca anche nella serietà, nel cercarsi, nel trovarsi. Per me il lavoro è fondamentalmente un percorso umano.
Forse, senza la loro proposta, avrei replicato per il dodicesimo anno Mumble Mumble. Non che fossi stanco di farlo, perché è uno spettacolo cresciuto con me, cambiato con me, l’ho sempre sviluppato diversamente. Ma cambiare spettacolo è stato importante. Ha fugato anche il dubbio che avessi paura a scrivere una seconda cosa.
Mi solleticava l’idea di realizzare un seguito di Mumble Mumble, nonostante io e Andrea (Pergolari) avessimo giurato di non farlo. Decisi, quindi, di prendermi questo rischio enorme e scrissi di getto questo nuovo spettacolo.
Ovviamente, tenuto conto dell’ondivaga solidità della mia autostima, ero convinto di aver fatto una schifezza. Mi sentivo già pronto per il terzo capitolo, liquidando il secondo come quello che – si sa – viene sempre male. Invece, con mia grande sorpresa, ha riscontrato un notevole successo, tanto che lo riprenderemo in autunno, ripartendo sempre da Roma, al Cometa Off. Uno spazio ideale per un rapporto diretto con il pubblico. Uno spazio raccolto è salvifico, è fatto di carne, sudore e di anima.
Il Direttore di Quarta Parete Roma, Andrea Cavazzini, che, nel frattempo, ci ha raggiunti, chiede ad Emanuele notizie circa l’arrivo di Giuseppe Marini alla regia.
Tutti noi di Mumble Mumble, da Paolo Giommarelli, fratello acquisito, ad Andrea Pergolari fino al nostro tecnico Giacomo eravamo come una famiglia, abitavamo una comfort zone dalla quale era difficile uscire. Per questo era necessario introdurre un elemento esterno, qualcuno con cui sentirsi anche a disagio, ove necessario, e che stimolasse le due grandi P: paura e perfezionismo. Era necessario buttare all’aria tutto e ricominciare da capo, rimettersi in discussione. Avevo bisogno di ripartire da zero. E qui entra in gioco Giuseppe che ha interpretato alla perfezione il suo compito senza mai lasciarci “scampo”. Ha costruito meticolosamente il reticolato divenuto poi una preziosa e rigorosa confezione all’interno della quale Diario ha trovato la sua necessaria forma ed il suo senso ultimo.
Però la consapevolezza di avercela fatta con Mumble Mumble c’era, no?
Avevo, sì, la consapevolezza di avercela fatta in passato, ma avevo nuove paure, perché c’era il timore di tradire la fiducia del pubblico costruita con Mumble Mumble, di non essere all’altezza del primo successo. Chiamiamola pure ansia da prestazione.
L’occhio esterno di Marini, invece, non mi ha consentito di adagiarmi sulla capacità affabulatoria ormai consolidata e mi ha obbligato a fare quello che io da solo avrei probabilmente cercato di svicolare. Qui, «Non diciamola questa cosa, cerchiamo di esserla»… E così via via a tirar fuori e a mettere a nudo i propri sentimenti, i propri pudori fino a giungere ad una necessaria “verità”.
Anche la narrazione ci sta, però. Alterniamola. Io sono una ferma sostenitrice dell’alternanza tra narrato e agito.
Sì, anche per una rilettura elaborata dei fatti. Però in qualche momento è necessario agire. Bisogna mantenere l’equilibrio, giustamente.
E di Esistenzialismo
Se dovessi scegliere un classico da portare in scena, cosa sceglieresti?
Difficile scegliere. Forse direi Dostoevskij, il mio autore preferito. Si può ancora dirlo di questi tempi vero?…
In queste pagine sicuramente: l’arte è arte. Moravia lo considerava il padre dell’esistenzialismo
Esattamente. Lo scrisse in una prefazione a Memorie dal sottosuolo. Il suo modo di far parlare il personaggio, di scavare nei meandri dell’animo umano sono incredibilmente moderni e fortemente psicanalitici.
Preferisco un teatro che sia introspettivo, che scavi e indaghi l’uomo, che produca personaggi in grado di interrogarsi sulle grandi domande e attori capaci che arrivino alla pancia.
A volte vado a teatro a vedere attori pur bravissimi, in grado di fare grandi virtuosismi recitativi, ma ai quali, a fine spettacolo, dici bravo, e non grazie.
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L’intervista è finita. È stato un magnifico pomeriggio. Emanuele Salce è uno dei pochi artisti che sanno essere se stessi, sul palcoscenico e fuori. All’inizio ho descritto questa intervista come una pièce. Lo è stata. Abbiamo riso, abbiamo affrontato temi più seri. Emanuele ha sfoggiato la sua fresca attorialità, la sua innata ironia molto salciana, caustica e gentile al contempo.
Nel ringraziarlo e nel dargli appuntamento al Cometa-Off in autunno, dunque, non posso che chiudere con una parola: Sipario.