“Cinquant’ore” e la duplice violenza sulle donne nel monologo di Olimpia Ferrara

Tra le vie di Esperia, piccolo centro della bassa Ciociaria, ancor oggi risuonano terribili gli echi di quelle cinquanta ore in cui si scatenò l’inferno. Correva il maggio del 1944, Seconda Guerra Mondiale. I Goumiers – il contingente nordafricano dell’esercito francese – sfondarono la Linea Gustav, granitico avamposto nazista nei pressi dell’Abbazia di Montecassino. Un’impresa inattesa, che costò anche parecchie vite umane, ed aprì il varco al XIII Corpo Britannico che così potè proseguire l’avanzata verso nord.

I sopravvissuti tra i vincitori ricevettero in premio Cinquanta Ore di libertà, carta bianca. Che si configurarono come occasione per sfogare violenze e istinti primitivi sulle donne del posto. Giovani, adulte, anziane. Signorine e signore. In molte vennero picchiate, abusate, annullate. Barbarie. La loro vita cambiò in quel momento e per sempre, come ha raccontato una talentuosa attrice, Olimpia Ferrara, nel monologo da lei scritto e messo in scena sul palco di Teatro Accento a Testaccio.  Cinquant’ore è appunto il titolo dello spettacolo, proposto dall’8 al 10 aprile per la regia di Giorgia Filanti. Un monologo che era molto atteso a Roma dopo l’assegnazione alla Ferrara del premio “Giulietta Masina”, sezione “Gelsomina” rivolta alle attrici Under 35, organizzato da “Oltre le Parole” Onlus con il contributo di Regione Lazio.

Ci teneva tanto a confezionare questo lavoro. Lei, Olimpia Ferrara, originaria proprio di Esperia. Cresciuta anche tra i racconti di paese che descrivevano le terribili “marocchinate” di quei giorni. Ha raccolto testimonianze e dato a loro voce. Per descrivere soprattutto i devastanti effetti morali e sociali subiti dalle donne violentate nella fase successiva al passaggio dei Goumiers.

Ecco che il monologo si fa teatro in senso ampio, con confini artistici che si espandono ai territori della denuncia sociale, della memoria storica e delle crudeli conseguenze che i costumi morali determinano nelle piccole comunità. Omertà e vergogna, etichette e stigma. Condanna silenziosa, emarginazione senza via d’uscita. L’abuso carnale subìto che si fa colpa. E genera nuova violenza. Gli uomini rifiutano, le famiglie ripudiano. Figli nascosti, figli che muoiono in grembo. La gente di paese non vuole esorcizzare, ma anzi isola, allontana, senza batter ciglio. Lascia morire di sifilide e gonorrea.
Ma qualcuno si fa coraggio, e supera le barriere della paura. Maria Teresa Moretti fu tra le poche. Lottò e ottenne un dovuto risarcimento. Anzitutto per la sua dignità.

Olimpia Ferrara  – Tresinella, nel racconto –  punta il dito contro le barbarie della guerra. Contro un sistema maschilista che allora ancor più che oggi non lasciava scampo. Contro l’agghiacciante onta dei ricordi scomodi, da allontanare e cancellare. Come se nulla fosse accaduto.
Però, con il sapiente supporto registico, è abile anche a sdrammatizzare e ad alleggerire il racconto. Che a tratti si fa lirico e grottesco, ad esempio quando dietro ai panni stesi compaiono due marionette a imitare le comari. A loro volta macchiette esilaranti. Tra il pubblico scappa qualche risata, elisir.
Energica, briosa, con un sorriso luminoso: Olimpia Ferrara convince e aggiunge una nota di realismo e veracità all’interpretazione recitando nella lingua di quella che un tempo fa la napoletana Terra di Lavoro, Regno delle Due Sicilie.

Il teatro che allieta, che insegna, che ci ricorda da dove veniamo, che ci sbatte in faccia anche brutte storie.

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