Un mentitore, che è anche attore, un passato celato, una storia beffarda: si dispiega, articolandosi lentamente, prendendo corpo e forma tra le pagine di La figlia di Shakespeare romanzo di Paola Musa, già autrice nel 2008 di “Condominio Occidentale” per Salerno Editore.
Pubblicata lo scorso luglio da Arkadia Editore, l’ultima opera fonda la sua struttura su di un’interiorità spiazzante, quella di un uomo intento nella quotidiana rimozione dei suoi fantasmi: se ad Alfredo Destrè va il merito di aver risollevato le perdute sorti del teatro Globel, una successione incontrovertibile di rivelazioni andrà a sanare le lacune di un contesto suscettibile fin dall’inizio alla presenza di zone d’ombra.
Ambiguo è il protagonista, ambiguo il suo passato, il circuito delle sue relazioni: progressivamente indagato nelle sue inclinazioni e reazioni l’uomo sembra galleggiare nel suo stesso artificio eleggendolo come habitat vitale e necessario.
Può un teatrante adagiarsi alla finzione fino a permettere di compenetrare la sua stessa esistenza?
Veicolate da una scrittura scorrevole, che racconta in terza persona ma incarna in maniera lucida ed esposta il punto di vista del personaggio centrale, le verità vengono a galla appoggiandosi su un tempo del racconto sapientemente distillato.
Presenze fino ad allora in ombra, si fanno nitide, chiariscono il loro ruolo rendendosi di volta in volta determinanti nell’equilibrio della narrazione: così come lodevole risulta la loro presentazione descrittiva, lo è altrettanto la capacità di creare una coerenza interna capace di non vacillare anche dinanzi ai continui colpi di scena.
Una figlia, forse due, l’olezzo marcio e persistente di un passato che fatica a configurarsi come senso di colpa e neanche alla fine sembra diventarlo: se leitmotiv del romanzo è la presenza di una ubris tanto rovinosa quanto esternata nelle sue numerose declinazioni, ciò non impedisce al lettore di muoversi fra le trame di un animo, di un mistero verso il quale rimane fino all’ultimo irretito.