La corsa all’oro è il viatico di un nuovo dramma per l’Amazzonia? La cronaca ci trasmette in questi giorni le immagini dei danni del coronavirus in Amazzonia, denunciando la morte nel cuore della foresta a Manaus di Alvanei Xiriana un ragazzo di soli 15 anni morto dopo aver lottato per 21 giorni. Era uno studente yanomami originario di Rehebe, un piccolo villaggio sul fiume Uraricoera, uno dei tanti affluenti del Rio delle Amazzoni a nord del Macapà, la capitale dello Stato di Amapàò , una delle prime vittime indigene della pandemia Covid-19 nell’ Amazzonia brasiliana, virus che sembra certo diffuso dagli illegali cercatori d’oro che soprattutto nel Paranà operano in quella zona. Allora guardando in televisione le immagini della splendida Manaus capitale dell’Amazzonia con le sue case liberty, eredità dei ricchi piantatori inglesi di caucciù che alla fine dell’800, lì costruirono anche un teatro grande come La Scala di Milano. Vedere la splendida Manaus attraverso i camici bianchi e le mascherine dei medici impegnati a fronteggiare l’epidemi, ci ha riportato alla memoria un incredibile viaggio fatto non molto tempo fa a Macapà alla foce del Rio delle Amazzoni, una città che si può raggiungere solo via aerea l’unica strada porta solo nella confinante Guyana francese. Fu lì che mi portò Max De Tomassi grande esperto della musica brasiliana ma anche di costumi, tradizioni, cultura di un paese tutto da raccontare come ho fatto con Max produttore esecutivo di tanti documentari da me realizzati per la Rai. Questa volta partimmo con Carlo Bernardini uno dei migliori operatori del Tg1 per intervistare nel tribunale di Macapà il giudice Sueli Pini, una dei candidati al Nobel per la pace per meriti umanitari e per la lotta e la salvaguardia degli indios che dall’interno della foresta costruiscono con le famiglie dedite all’agricoltura e alla pesca piccoli villaggi su palafitte dove come lupi affamati arrivano per sfruttarli affaristi e trafficanti di ogni genere, viatico la televisione, i frigoriferi, il finto modernismo, due missioni una cattolica e l’altra protestante che si contendono i fedeli, perfino il bancomat ma non la legge, non le scuole, non gli ambulatori. Allora che fa il coraggioso magistrato Sueli Pini? Costringe ogni due mesi tutto il tribunale di Macapà fatto di giudici, pretori, impiegati ma anche medici, polizia ed insegnanti ad imbarcarsi sui battelli resi celebri da “Fitzcarraldo” per portare la legge sul fiume.
L’arrivo a Macapà avvenne con un volo da Roma via Lisbona a Recife prima tappa in Brasile nel nord dello Cearà, quindi Belém infine Macapà regina liberty come Manaus a cavallo dell’equatore e alla foce del Rio delle Amazzoni che gettandosi nell’Oceano Atlantico crea fenomeni di alta e bassa marea e una gigantesca onda alta 4 metri, la porococa paradiso dei surfisti. Il nostro albergo piccolo ma pulito e con l’aria condizionata soprattutto era vicino al mare ma anche agli odori della foresta. La città pulita, ordinata con le scuole, gli studenti in divisa, il Palazzo di Giustizia ci ha accolse il giorno dopo, ma il giudice non c’era e già, cioè la ragione di quel lungo viaggio pianificato con Max nei minimi particolari non era in città partita improvvisamente in aereo per una località del Brasile al capezzale di un familiare. Max ammorbidì il panico assicurandoci che avremmo fatto l’intervista alla fine del viaggio sul fiume per firmare l’arrivo del battello della legge. Fummo ospitati a cena dal governatore che ci assicuro per il giorno dopo l’utilizzo del suo elicottero e ci invitò a filmare dalle curiosità il grande zero ecuador una sorta di monumento che rendeva visibile la linea dell’equatore che divide in due la città ed un gigantesco stadio dove lo stesso governatore avrebbe officiato un matrimonio di massa di migliaia di giovani coppie. Musica e folklore, tradizioni e costumi a 15 ore di volo da Roma. Ma la mattina dopo come nei film di avventura ci aspettavano le sorprese, fummo informati che l’elicottero non era più disponibile e che sua in sua vece saremmo stati trasportati nel viaggio sul fiume da un motoscafo dei pompieri. Prima di salpare filmando il battello della legge che sarebbe saltato nel primo pomeriggio e ci imbarcammo il Rio delle Amazzoni malgrado l’abilità dei tre pompieri attrezzati anche per sicurezza con un satellitare, non è un fiume qualsiasi e si rivelò subito un’impresa caratterizzata da spaventosi sussulti causati dalle onde corte e dalla navigazione controcorrente, il tutto compensato solo dalla magica visione di una natura stupefacente. Max che soffriva di una noiosa discopatia si distese su una specie di cuccetta, Carlo filmava in equilibrio sulle gambe e io mi reggevo in piedi ai passanti della lancia. Ma che emozione! Quel mare di acqua dolce che ci accoglieva e che a stento ci faceva intravedere una riva dall’altra era ricco di ogni qualità di pesci: piranha, giganteschi pesci gatto, c’era di tutto anche i delfini rosa.
Per raggiungere il villaggio avremmo dovuto navigare a piena velocità per un paio d’ore in modo da poter filmare l’arrivo del battello della legge, avere anche il tempo di filmare un po’ di colore locale del villaggio, fare interviste e ripartire. Purtroppo non andò così. All’improvviso si ruppe il motore, la barca si girò su se stessa e spinta della corrente tornava indietro, i pompieri misero in acqua un piccolo motore d’emergenza e con quello riprendemmo lentamente la navigazione. A quel punto cominciai a preoccuparmi di non poter rispettare i tempi e soprattutto l’intervista che finalmente contattandola prima di partire Max aveva fissato alle 12 di due giorni dopo. Quando poche miglia ormai dalla nostra meta scorgemmo sulla riva sinistra una indigena in stato interessante che chiedeva aiuto. Era stata morsa da un pesce elettrico, l’adagiammo sulla cuccetta di Max e i pompieri che nel frattempo maneggiavano senza successo il satellitare gli prestarono le prime cure. Si riprese in tempo per partorire di lì a poco in una sorta di ambulatorio dove l’avevano trasportata. Senza satellitare non avremmo avuto pezzi di ricambio o altro per tornare indietro. Rimandammo i problemi, attraccammo finalmente al molo del villaggio, le facce sorridenti di un bel gruppo di bambini ci accolsero e ci fecero dimenticare i guai. Filmammo di tutto: i sentieri sulle palafitte, le capanne, i piccoli bistrot con i lavori artigianali, comprammo collane e bracciali, uno sciamano mi curò un fastidioso raffreddore facendomi odorare l’interno di un frutto, a Max passarono i dolori con una sorta di bevanda verde dal sapore di pesca, Carlo Bernardini filmava e fotografava tutto anche l’interno delle capanne sotto gli sguardi degli indios che già sapevano che cos’era la televisione. Poi finalmente l’arrivo del battello della legge l’unica cabina era al posto di Sueli Pini dedicata al magistrato che la sostituiva, gli altri passarono le notti stesi sulle amache all’aperto. A bordo c’erano anche due cuoche per i pasti. L’aula del tribunale sul piazzale all’aperto i delitti da giudicare e punire variavano dall’adulterio all’incesto, dal furto al delitto.
I medici in un locale adiacente visitavano gli indios e somministravano vaccini e medicine. A bordo gli insegnanti facevano lezioni ai più piccoli e regalavano libri. Ci convinsero i magistrati e gli avvocati a pernottare per una notte in una specie di locanda dove c’era però una sola camera disponibile, si fa per dire che io divisi con l’amico Bernardini. Max si arrangiò sulla barca steso sull’amaca ci addormentammo dopo cena non senza avere coperto tutti gli spifferi tra le travi, con buste di plastica e stracci vari, stendendo sui nostri letti per proteggerci dalle zanzare anche due zanzariere che con gli spray c’eravamo portati da Roma. La mattina all’alba ci aspettavano tre sorprese: la prima erano i larghi fasci di luce che venivano dal pavimento che dava direttamente sul fiume, la seconda fu un urlo di Bernardini che nel water aveva scoperto una gigantesca rana, la terza che per tornare a Macapà avremmo dovuto prendere il postale in partenza alle 14, navigare tutta la notte e arrivare a Macapà all’alba, mare permettendo, soprattutto le maree, andare un attimo in hotel doccia e correre in tribunale alle 12 per l’intervista. Salutammo gli amici della barca della legge, le ragazze del tribunale e anche quelle del villaggio tutte impazzite per il savoroso Bernardini così montante le tre amache sul ponte comprate al mercato con una quantità di spezie e souvenir ci tuffammo miracolosamente indenni da punture di zanzare in quella che sarebbe stata la nostra prima notte sul Rio delle Amazzoni. Non dormimmo mai, come vivere in un film!
La luna piena, lo squittio degli uccelli, gli spruzzi dei delfini, i fuochi degli indios sulle rive, i battelli a motore che ci arrembavano per scaricare al volo mercanzie e persone imbarcate così. La musica in sottofondo di una radio, i volti dei bambini coi volti che esprimevano stupore e anche vita ci restarono nel cuore. Arrivammo all’alba, ma dulcis in fundo a soli 4 metri dalla banchina per effetto della bassa marea la barca si spiaggiò, gli indios ridevano finalmente ridevano a vederci sbarcare strisciando su una tavola appoggiata alla buona come passerella, eravamo arrivati, l’intervista con il giudice coraggioso era salva. L’incontro avvenne nel suo ufficio al tribunale di Macapà, il sole non ci aveva mai abbandonato come il fascino che quella piccola donna metà yanomani emanava dei suoi grandi occhi neri. Sueli Pini il magistrato coraggioso ci parlò dei problemi delle donne del fiume, di quelle che imparando ad usare piccoli motori che spingevano le canoe venivano scotennate letteralmente perché i lunghi capelli si impigliavano con il vento nelle pale scoperte di quei motori, ci parlò delle condizioni difficili di vita delle donne incinta esposte a mille pericoli, ci parlò della fiducia e dell’innocenza degli indios che si affacciavano alla cosiddetta civiltà venendo invece sfruttati, seviziati, globalizzati, abbrutiti senza nessuna difesa dai delitti e dagli stupri. Si cosi Sueli Pini ci parlò e alla fine sorridendo ci invitò tutti e tre Max che filmava con gli occhi umidi, Carlo ed io ci invitò a pranzo a casa sua, un giardino colorato pieno di luce da dove si intravedeva la foresta, una casa allegra che custodiva un tesoro che ci fece festa con gridolini e sorrisi. 12 bambini 12! Il più piccolo pochi anni, la più grande 16, tutti adottati dal giudice, uno diverso dall’altro, un vero circo umano pieno di vita, di serenità, di allegria con l’ottima colazione e quell’incontro con una donna davvero straordinaria fu l’immagine finale di un viaggio davvero bello con la speranza oggi credetemi mentre scrivo che quel battello della legalità sul fiume sconfigga anche un virus che non ha pietà di nessuno.