Valentina Esposito si racconta ridando voce a chi la voce l’aveva persa

L’intervista all’autrice e regista di “Destinazione non umana” che ha trionfato al Teatro India di Roma

Valentina Esposito è una regista e autrice romana talentuosa, impegnata da molti anni in progetti di teatro sociale all’interno del carcere ma anche fuori. È l’ideatrice del progetto Fort Apache Cinema Teatro, l’unica compagnia italiana a dare spazio in modo stabile ad attori ex detenuti oltre che ad attori professionisti. Il progetto da prova di quanto l’unione faccia la forza, soprattutto quando a unirsi sono realtà lontane e controverse. 

Valentina Esposito

L’abbiamo vista con il suo ultimo lavoro teatrale Destinazione non umana in scena al Teatro India di Roma lo scorso aprile, uno spettacolo dal valore inestimabile che parla forte e chiaro e senza mezzi termini in merito alla sopravvivenza di esseri umani privati della dignità, paragonati alle bestie. Lo sanno bene i protagonisti che hanno vissuto sulla propria pelle storie di difficile accondiscendenza.

Sapere che la profondità e la spregiudicatezza delle vite dei diretti interessati è più facile da scoprire lavorando all’interno delle realtà carcerarie piuttosto che all’esterno, è un’interessante e straordinaria possibilità di riflessione artistica che permette di comprendere quanto sia appagante interfacciarsi con tali identità. Si ha a che fare con mondi interiori che sembrano impossibili da ricostruire e che contro ogni aspettativa volgono a una consapevolezza ritrovata complessa da spiegare razionalmente, infatti si usa il teatro come mezzo per il risvolto personale e di gruppo, essenziale per dare uno spiraglio di speranza alle persone coinvolte, lasciandole libere di potersi ridisegnare attraverso nuovi sguardi. 

Qual è la storia della compagnia “Fort Apache”, e che significato ha questo nome?

Fort Apache nasce nel 2014 dopo il lavoro nel carcere romano di Rebibbia. Io ho diretto per circa 15 anni i corsi di formazione teatrale all’interno di un reparto particolare, il reparto “G8 Lunghe Pene Reclusione”, instaurando dei rapporti umani e professionali con gli attori detenuti lì. Alcuni di loro, tra i più bravi, quando incominciarono a uscire terminato il periodo di reclusione, mi chiesero con urgenza di continuare. In quel momento ho aperto gli occhi sulla situazione riguardante il teatro all’esterno del carcere. Il teatro in carcere è abbastanza diffuso in Italia, ma all’epoca non c’erano strutture che gli dessero proseguimento al di fuori e per non perdere la relazione artistica che si era creata, il metodo e lo stare insieme portando in scena certe tematiche, decidemmo di fondare una compagnia esterna, che all’inizio accoglieva chi aveva avuto un percorso dentro e poi ha accolto anche attori detenuti in misura alternativa, attori professionisti e studenti dell’università. Per quanto riguarda il nome “Fort Apache”, è stato scelto perché ci riportava a un concetto di resistenza e resilienza che sicuramente ci contraddistingue dato il coinvolgimento di persone che vivono in modo liminale. Era fortemente necessario darci un’identità e un nome che stabilisse la nostra esistenza.

Quanto sono propensi a voler fare l’esperienza teatrale o cinematografica i detenuti con cui ti interfacci? Prima di iniziare a entrare in scena, queste persone vanno convinte o si propongono autonomamente?

All’interno delle carceri le attività teatrali sono proposte come parte dei percorsi trattamentali ma non tutti possono accederci perché la popolazione detenuta è numerosa e i corsi non sono sufficienti, nonostante siano territori frequenti in Italia. Andare a teatro significa uscire dalla routine quotidiana e dalle sensazioni procurate dalla pena: l’ansia, la depressione e la noia. Il teatro è un territorio libero, una finestra sul mondo, un modo per mettersi in contatto con persone che ne sono estranee. Si costruiscono dei paesaggi dell’immaginazione che permettono di evadere. Tuttavia, ciò detto lo si scopre strada facendo, inizialmente è comunque difficile portare a teatro persone che nella vita ne sono state distanti. Il tasso di analfabetismo o semianalfabetismo è altissimo e seppur in carcere si recupera l’istruzione di base a partire dalle scuole elementari, le medie, le superiori ecc. si rimane lontano dalla poesia, dalla letteratura e si fa fatica a coinvolgere le persone. Poi evidentemente scatta un qualcosa nella loro mente, tanto che da sole riconoscono il beneficio che viene da questo lavoro, restandone ancorate ancora adesso.

I detenuti come si sentono emotivamente rispetto al percorso attoriale che intraprendono?

Il teatro è un esercizio spirituale di esplorazione interiore, soprattutto se fatto in un certo modo. Nello spettacolo “Destinazione non umana” che ho portato al Teatro India ho lavorato su alcune questioni fondamentali, come il rapporto con la morte e con le colpe del passato, raccontando mediante la metafora delle corse dei cavalli l’idea di vite spericolate, esposte al rischio di caduta. Non mancano le questioni legate alle sostanze stupefacenti o alla predestinazione, che per lo spettatore possono diventare occasioni per affrontare il racconto di temi di spessore e tragici. Invece, per coloro che sono sul palcoscenico c’è il tentativo riuscito di entrare nel proprio vissuto, per riflettere su sé stessi attraverso il teatro. Questo da una parte porta un beneficio assoluto nel riappropriarsi di sé rivedendosi da fuori con altri occhi e ricostruire un’identità nuova, e dall’altra, quello che va in scena radicandosi così bene alla realtà, porta forza, una forza scenica della quale il teatro giova legandosi all’autenticità di un evento che accade nel ‘qui e ora’. Il processo creativo che conduce al risultato finale fa si che il legame con la realtà resti visibile.

Destinazione non umana” che cosa vuole raccontare di nuovo rispetto a quello che comunemente si sa della realtà carceraria?

Io vorrei che la realtà carceraria attraverso il teatro venisse dimenticata. E sono molto felice che ciò accada, il riscontro positivo si è visto nel riuscire a portare lo spettacolo “Destinazione non umana” in tutta Italia. Quando parliamo con gli spettatori non parliamo mai di carcere ma di teatro, ed è il risultato auspicabile. Fare teatro con persone che hanno vissuto l’esperienza della reclusione soffermandoci su di essa, a mio avviso è un controsenso che disattende il compito costituzionale delle attività trattamentali, ovvero reinserire socialmente e professionalmente le persone accompagnandole in un percorso di ricostruzione identitaria. Perciò raccontare sulla scena quello che i protagonisti sono stati o utilizzare la maschera sociale che sono costretti a indossare nella vita, per rendere forte il teatro, io lo trovo scorretto. Penso piuttosto che il passato possa essere utilizzato creativamente, essendo materia per ideare delle nuove storie. È vero che il passato non si può dimenticare però si può trasformare usando delle cornici narrative che stabiliscano un ponte fra l’attore e lo spettatore. Motivo per cui tendo a creare storie che mettano di fronte a tematiche forti, quali il rapporto con Dio, con il nostro destino, con la casualità e la sofferenza, verità che fondano le radici nella biografia dei soggetti interessati ma contemporaneamente riguardano chi li vede. Non voglio riproporre il carcere ma superarlo.

Qual è il rapporto che si instaura fra gli attori professionisti e gli attori ex detenuti?

Da questo punto di vista il teatro è eccezionale perché noi rivendichiamo un respiro democratico, il teatro è di tutti ed è per tutti. Riusciamo a instaurare delle relazioni in primis professionali e poi amicali fra persone che vengono da contesti lontanissimi. La trasversalità fa parte dei principi del nostro lavoro. Per reinserire gli individui bisogna metterli in relazione con mondi con cui altrimenti non verrebbero a contatto, facendogli respirare un’aria diversa. A tal proposito sono orgogliosa di lavorare all’università, portando questi attori a partecipare ai laboratori integrati assieme agli studenti e alle studentesse, ai laureandi che studiano storia del teatro, o che vogliono diventare attori e specializzarsi. Gli attori professionisti si destabilizzano vedendo un approccio al teatro assolutamente diverso da quello che conoscono. È bellissimo scoprire i punti di incontro tra gli artisti, un terreno condiviso, tecnico, emotivo o linguistico che sia. Una compresenza che apre le chiavi della ricerca e della sperimentazione creando delle necessità reciproche, dovendosi capire avvicinandosi, è importante anche per me visto che mi torna indietro.

Insegnando presso il laboratorio di “teorie e tecniche del teatro sociale” all’università, cosa vuoi trasmettere agli studenti?

Gli spettacoli della compagnia Fort Apache sono nati nell’ambito di un territorio di ricerca che è il laboratorio universitario. In primo luogo, l’accoglienza della compagnia è stata l’università “La Sapienza di Roma” dove svolgevamo e svogliamo i corsi di formazione e i laboratori integrati. Attualmente sono impegnata alla Sapienza al Teatro Ateneo con un progetto di Terza Missione. Gli studenti ci seguono dappertutto! Vengono ai laboratori e agli spettacoli, si sono innamorati del progetto. Utilizzare il teatro come chiave di accesso alle soggettività e allo stesso tempo come strumento di comunicazione con lo spettatore, dovrebbe essere comune e funziona con tutti, compresi gli individui che non hanno vissuto la reclusione ma che cercano nel teatro qualcosa di più. È un processo per dare nuova linfa alla drammaturgia, per non disattendere tali aspettative e per rispondere alle esigenze dei partecipanti. Non si può fare costantemente riferimento ai testi già scritti, si dovrebbe impiegare la scrittura scrivendo per le persone e sulle persone, affinché le persone possano riscriversi per il pubblico. L’attore cerca di ricostruire la sua identità tentando di ricostruire lo sguardo dell’altro su di sé e ha bisogno che qualcun altro costruisca un nuovo ritratto con la scrittura. Con Apache accade così.

Destinazione non umana, da una reclusione disumana alla liberta teatrale
Destinazione non umana

A chi è destinato idealmente lo spettacolo e la storia che viene raccontata?

A noi piace pensare che il teatro possa parlare indistintamente a tutti. La comunità di spettatori che solitamente viene a vedere i nostri spettacoli è davvero variegata, dagli addetti ai lavori, ai familiari, agli amici degli attori che sono sul palco. Sono platee vere e straordinarie, che magari riporteranno il teatro alla sua funzione originaria di rito comunitario di tutti e per tutti. Io cerco ogni volta di creare rappresentazioni che abbiano più livelli di lettura e che siano leggibili e comprese da tutti. Non è ovviamente semplice ma lavorare con persone provenienti da contesti diversi pone le basi per poter dialogare con lo spettatore su più fronti.