Stridori e ricorrenze: La dura scala del femminismo

Un quadro ancora attuale degli ostacoli alla parità

di Marco Buzzi Maresca

Dopo l’esordio a Parma, nel 2023, arriva anche al Teatro Vascello di Roma, la splendida messinscena del capolavoro femminista di Caryl Churchill, ad opera di Monica Nappo, regista e anche attrice nel gruppo. Il testo, uno dei meno astrusi e più narrativi dell’autrice, parte apparentemente leggero, quasi frizzante e surreale, comico, nella miglior tradizione anglosassone del teatro di conversazione. 

Ma da subito in Top girls, si avverte un sottofondo di crudeltà e di assurdo, che pian piano, dalla critica sociale al maschilismo secolare slitta sul drammatico e personale, sul dramma famigliare. Lo schema procede per tagli temporali, sostanzialmente dal passato al presente, ma con lievi oscillazioni in flashback. Si tratta, con sviluppi a margine, della storia di Marlène (una splendida Sara Putignano), una manager di successo, promossa a dirigente in una agenzia di collocamento, ma che questo successo paga a caro prezzo. I blocchi temporali comunque sostanzialmente sono tre. Una ouverture corale di fantasia, dove Marlène festeggia il proprio successo ad una tavolata con donne famose di altre epoche; una sezione centrale dove si vede il mondo del lavoro nell’agenzia; ed un finale dove irrompe sulla scena il passato di Marléne, con tutte le sue dolorose contraddizioni. La regia è minimalista sul piano visivo, ma efficace, dando l’idea del muoversi delle protagoniste in un vuoto irreale, così com’è nel sociale per le donne, dove è come se si scivolasse senza riuscire a fare presa.

Si comincia con la tavolata su cui incombono un grande telario verde scuro, acquatico, ed un surreale lampadario argentato, grondante collanine perlacee.

L’idea è appunto di vedere muovere dei pesci in un acquario, mentre imperturbabile e rigida, silente, in mezzo al loro starnazzare, si aggira la serva.

Perché certo già qui è politico. Le donne del passato sono tutte delle potenti, a loro modo, anche se hanno pagato. Ma la serva è la certificazione della reale condizione, muta, di sudditanza. Le donne si parlano addosso, spesso ridono sguaiatamente. Ma tutte hanno sofferto. Isabell Bird, viaggiatrice scozzese dell’ottocento, che per la libertà rinuncia ad amore e figli. La papessa, assurta nel IX secolo al soglio pontificio, fingendosi uomo, ma che partorendo il figlio dell’amante, in processione, viene smascherata e uccisa. Lady Nijo, cortigiana del medioevo giapponese, che per star vicino all’imperatore si vede togliere tutti i figli.

E così via.

Raccontano con tono salottiero, sovraeccitate, quasi ubriache, ma spesso appaiono prone a ciò che il destino ha dato loro. Ed il parlarsi sopra, le ondate improvvise di sguaiato ridere, testimoniano di un rito collettivo di segregazione femminile che non riesce ad essere vera complicità, ascolto, solidarietà, confidenza. E l’eccitazione delle serve in cucina, che sparlano dei padroni, ma non li contestano.

Lo spazio minimalista. Il vuoto che esalta il vuoto.

Finita l’ouverture, di scena è l’agenzia di collocamento. 

Uno due tre tavoli, nel nulla. 

Colloqui di lavoro dove si dipingono con grazia crudele e melanconica i bozzetti degli stereotipi sociali a cui le donne cedono. Da un lato quelle che cercano lavoro, timide ed impacciate (o in un caso una adolescente ebete e spavalda), che faticano a pretendere. Ma che comunque cominciano ad avere ambizione di mobilità sociale. Vogliono cambiare lavoro, per es, perché gli uomini nella loro azienda le hanno scavalcate. Dall’altro le addette dell’agenzia, che tentano di istruirle ad essere come il mondo le vorrebbe; e dunque, donne arrivate sì, ma che propongono e riproducono il modello maschile, senza vera coscienza di gruppo. 

E anche qui. 

Quando sole, pettegolezzi e risate, come da serve in libertà. 

Ma il culmine, e devo dire, pur nel macchiettismo una delle scene più riuscite, è quando si fa ricevere da Marlène la moglie di Howard, l’uomo che lei ha scavalcato, diventando capo al posto suo. La moglie trova naturale che il marito stia male ad essere scavalcato da una donna, e ancor più le pare che non potrebbe tollerare di dover ubbidire ad una donna. Il comico sta nel vissuto di naturalezza che ha nel chiedere, e l’ilarità in maschera cresce fino al culmine della sua rabbia di fronte al rifiuto di Marlène di dimettersi: passa a questo punto dall’untuosità di mogliettina alla scenata volgare.

A questo punto la scena comincia ad oscillare tra due luoghi e due tempi.

Da un lato la nipote di Marlène, Angie, con un’amichetta, che sogna di sganciarsi dalla madre – dura e povera – e stare con la zia.

Dall’altra i contatti con la zia, e poi tra Marlène e la sorella.

L’attrice che fa la nipote (Corinna Andreutti) è brava ad incarnare il sogno sopra le righe ed irrealistico di questa adolescente quasi ritardata. E’ sempre esclamativa. Non ascolta. Gira spesso con un fiammante vestito rosso, che nel buio generale è patetica fiamma di sogno.

Fa così da controluce al progressivo disvelarsi del vero mondo di Marlène. Questa si dimostra imbarazzata dalla visita e dai sogni della nipote, e confida poi ad una impiegata che la nipote è stupida. Da dove nasce tuttavia l’equivoco, il desiderio di Angie?  la zia qualche anno prima era venuta in visita, dopo lunga assenza, e le aveva regalato il vestito rosso. 

A questo punto, dura realtà, il finale – con un flashback su quella visita – svela la verità. Il padre di Marlène picchiava la madre, che ora vive sola, accudita dalla sorella (Joyce), e Marlène è fuggita. 

Ma prima di fuggire – ragazza madre – ha ceduto la figlia alla sorella (ora peraltro abbandonata dal suo uomo).

E qui le due attrici – sorella e Marlène – esibiscono un fuoco d’artificio recitativo, con altalene tra rancore, slanci affettivi, fragilità, rimpianti.

Resta tuttavia la nudità.

Marlène quella figlia non la vuole. Non vuole quel mondo. Soffre sola, nel successo.

Le due attrici sono brave anche posturalmente.

Marlène in rosso e tacchi a spillo, tra momenti di gelo e accasciamenti vittimistici.

La sorella seduta rigida come un tronco, a gambe aperte e gonna quadrata, salvo poi accendersi sguaiata, di nascosto, di fronte a un bicchierino.

Insomma, una crudele e abile sinfonia a scendere sul fallimento esistenziale del primo femminismo, nell’Inghilterra tatcheriana (il testo è del 1982). E un discorso per niente superato. Tuttora infatti il peggior nemico dell’emancipazione femminile è il modello maschile introiettato, sia nella sudditanza che nel ruolo di potere.

Si badi bene però. Parlo di sinfonia a scendere perché sul finale il tutto si fa tragedia da camera, e si rischia di cadere nel dramma intimistico.

Non bisogna però dimenticare i geniali quadri collettivi, la tavolata prima e l’ufficio poi, dove veramente emerge la stupida crudeltà del meccanismo collettivo, con una vivacità ritmica in qualche modo goldoniana.

E dispiace non poter disegnare nei particolari la bravura di tutte le interpreti.

Ma nessuna sta indietro, e nella tavolata iniziale sono sublimi: un gioco di specchi di crudeltà mozartiana. Perché poi, alla fine, qua e là il testo potrebbe anche ripetersi, e quello che ci dice esserci già troppo noto, ma la sua ritmica lo impone, e ce lo imprime.

________________________

Top girls – di Caryl Churchill – traduzione di Maggie Rose – regia Monica Nappo – con Corinna Andreutti, Valentina Banci, Cristina Cattellani, Laura Cleri, Paola De Crescenzo, Martina De Santis, Simona De Sarno, Monica Nappo, Sara Putignano – costumi Daniela Ciancio – scene Barbara Bessi – luci Luca Bronzo – assistente alla regia Elvira Berarducci – produzione Fondazione Teatro Due, Parma – Teatro Vascello dal 20 al 25 febbraio 2024

Cinema & TV
Elena Salvati

Questione di Chakra

La visione sull’uomo moderno nella sua ricerca interiore al Festival del cine español y latinoamericano Un’ondata di freschezza proveniente dal mondo

Leggi Tutto »