Soglie mobili: Il circo delle relazioni

Un nuovo Rezza muove attori oggetto

di Marco Buzzi Maresca

E’ abbastanza paradossale che un lavoro apparentemente comico prenda a titolo un concetto che si può considerare la radice stessa del tragico. Hybris: l’oltranza eroica, il peccato di superbia, di chi non accetta i limiti mortali ed il fato. Ma in realtà è una scelta consequenziale al giullarismo metafisico di Rezza, che rende sempre tragicomica la sua critica sociale, nel suo coinvolgere nevroticamente se stesso come bersagliante e bersagliato: un capitano che affonda col suo transatlantico. Rezza in ‘Hybris’ (Teatro Vascello, Roma, 3-14.1.2024) infatti spara i suoi petardi ilaro clowneschi, a ritmo frenetico e surreale, come al solito, sì principalmente contro l’istituto della famiglia – con le solite altalene tra battute geniali e ammiccamenti più popolareschi – ma in realtà più a fondo sul ganglio primordiale che regge la convivenza: la relazione. La relazione che diventa falsa relazione, solitudine. Anche se certo, in tale direzione, lo scavo non è vertiginoso, ma piuttosto una sequela di fulminanti aforismi comici  

                   “Non lasciarmi da solo come quando sto con te”

                   “Mi ti dimentico mentre stiamo insieme“)

Certo la relazione è una questione di gradi di prossimità, di confini, è una porta che si apre e si chiude, che separa il dentro e il fuori, l’appartenere o meno, il fare casa a sé o con l’altro, gli altri. Una soglia che si varca su invito, da cui si esce, ma anche una porta che sbatte, che spara estromissione. Ed è questo l’unico oggetto scenico magrittiano che Rezza questa volta mobilita, un telaio mobile con porta, che lui porta in giro, apre e chiude, e che va a segmentare gli spazi del suo delirante esilarante discorso.

Gli altri oggetti scenici, diversamente dal solito sono, questa volta, persone, o meglio attori oggetto, da lui mossi come surreali pedine meccaniche, in un alternarsi di piena luce e penombre abitate da geometrie luminose ed ombre proiettate dai protagonisti, con lieve oniria.

Le battute sono sempre per giochi linguistici (‘diverticoli intestinali’ per ‘divertimento’),  fondate sul capovolgimento (quando chiede lui a chi entra “Disturbi ?”), o per derive associative, come quando dal disagio relazionale si slitta all’eutanasia, poi alla distinzione tra eutanasia Svizzera come solitudine tecnologica (la morte dei ricchi) e morte a casa, fino alla fulminate conclusione politica implicita,  “La vita è l’eutanasia dei poveri“ .

E come al solito, come proponeva Artaud, come talora è nel Teatro delle Albe di Ermanna Montanari, il grumo tragicomico si fa calibanico animalesco gesto sonoro, tra gramelot gorgoglii urlato sovracuto e rumoristica. Così all’inizio Rezza giace come in una trasparente porta bara, e la lingua sembra sorgere lentamente da un indistinto gramelot (mentre seduta su una sedia a rotelle una madre invalida – come un’ombra – assiste a quella nascita nel segno dell’invalidità relazionale). E ancor con più forza la lingua si fa gesto nel finale, dove la bestemmiata ribellione è un esplodere esagitato di lui che parla, strilla, maledice, in un fischietto, come un trombettista jazz.

La relazione. Un problema di spazi. Di spazi mentali, di modelli. Di gabbie quindi. Ma anche di spazi reali, fisici e sociali.

Quindi politicamente calzante è la ricorrente figura del rapporto incestuoso con la madre (invalida, ma anche incestuosamente invalidante la relazione, nell’invischiamento).

Il rapporto, che soffoca simbolicamente l’autonomia dell’io, avviene in uno spazio ristretto, la cui stessa ristrettezza giustificherebbe la cosa. La famiglia quindi soffocante, ma ancor più nella povertà, quando gli spazi vitali sono angusti.

Inoltre. La famiglia, in quanto modellizzante, rende angusto lo spazio vitale per un esterno (si veda il familismo amorale). Tiene fuori, segrega in un fuori. Quindi lo spazio della casa è al contempo angusto e fagocitante, e soffoca il fuori, che è però uno spazio immenso. Tutto o quasi, è fuori. E Rezza lo rende evidente, spostando la porta. “Come è grande il fuori!”. Che dire poi di quando Rezza, varcando più volte la soglia, dopo una simbolica perquisizione, la sente sempre suonare, e comicamente si spoglia sempre più, fino a che  nudo è costretto ad ammettere che l’oggetto denunciato dal metal detector come non consono era proprio lui come individuo-corpo.

L’alternativa ? O lasciarsi fagocitare, rendere permeabile la soglia all’invasività famigliare, o chiudere la comunicazione. Rezza ce le mostra entrambe. Gestisce così – come il capostazione gli scambi sui binari – il va e viene delle presentazioni: da fidanzati alle famiglie, e poi delle famiglie tra loro. E per rendere evidente il caos dei rapporti falsi e coatti, della Babele di discorsi autoriferiti, ad un certo punto si diverte ad accelerare e rallentare gli scambi di incontri come in un teatro delle marionette. E’ un’altra delle tematiche: per resistere bisogna controllare e manipolare. Ma a costo dell’estraneazione.

L’alternativa della comunicazione interrotta invece è mimata da lui che crea spazi immaginari, dicendo continuamente, “Non ti sento ! C’è il vetro.”.

Certo, tenendo fuori, si tiene fuori. La non comunicazione è il risvolto di un io soffocantemente costretto a chiudersi in sé, come rileva comicamente, autobersagliandosi

“Florian e Alberto si sono lasciati ? Non ne so nulla … perché nessuno dei due ero io .. la maggior parte delle separazioni avviene quando uno dei due non riesco ad essere io .. un botto di ricorsi  si verificano quando uno dei due, o tutti e due, non possono essere io”

Forse, agli albori della civiltà, la relazione era possibile ? O è il sociale che nel suo instaurarsi è automaticamente esclusione, lotta di classe ed individual familistica ?

“Perché esiste il dentro ? Per mortificare il FUORI. Prima dell’invenzione di DENTRO,  nemmeno se l’era posto il problema che stava fuori. Era sempliciotto FUORI .. Con l’avvento di dentro, fuori si è visto fatto fuori”

E da qui la conclusione comico politica.   

E’ il tripudio di  .. FUORI .. è il TERREMOTO. E’ FUORI, che esasperato dice : 

“Sto fuori io ?  Stiamo fuori tutti !!”. Il terremoto è l’ultima spiaggia di FUORI .. 

E’ FUORI che non ce la fa più, che afferma “Sto all’addiaccio io ? 

State all’addiaccio pure voi “

Si potrebbe andare avanti, ma ci si perderebbe nei particolari, per la stessa natura a bricolage tipica degli artefatti di Rezza. Come al solito avvince e vola via, in crescendo, fino al climax bestial gestual politico di cui sopra, non troppo diverso dalla serie di morti in scena di ‘Fotofinish’, per carica eversiva.

Gli applausi come al solito fioccano prima durante e dopo, da un pubblico stordito drogato dall’aggressione concentratamente barocca di ardori, ironie stupori

Hybris – di Flavia Mastrella e Antonio Rezza – con Antonio Rezza, Ivan Bellavista, Manolo Muoio, Chiara Perrini, Enzo Di Norscia, Antonella Rizzo, Daniele Cavaioli e con la partecipazione straordinaria di Maria Grazia Sughi – disegno luci: Daria Grispino – luci e tecnica: Alice Mollica – progetto video mapping e suono: Giacomo Sanna e Pietro Soru  – video e audio: Giorgia Mascia e Alessandro Pulloni  – macchinista: Andrea Zanarini – organizzazione: Marta Gagliardi, Simona Loi e Stefania Saltarelli – produzione: Sardegna Teatro Mixed Reality, RezzaMastrella – Teatro Vascello dal 3 al 14 gennaio 2024