Di fronte alla constatazione della scomparsa definitiva del valore rituale del compianto, drammatico appare il nostro disorientamento nei confronti della morte, all’interno di quello che è il contesto pandemico, che ha permeato la discussione pubblica del nostro paese negli ultimi due anni. Il teatro diventa allora, nella sua ormai proverbiale marginalità, cartina di tornasole di un processo di smarrimento individuale dalla portata pressoché inarrestabile. L’opposizione che il teatro, tuttavia, riesce sporadicamente a compiere nei confronti di quelle che sono le mode e le convinzioni del nostro tempo, nonostante non rappresenti una vera e propria svolta o rinascita, conduce a un vivace scambio di vedute. Il teatro italiano è, nonostante tutto, un terreno fertile in cui far crescere e prosperare il seme del pluralismo, poiché è prima di tutto la morte a poter essere affrontata e raccontata in modo veramente libero.
Quest’intervista a Elena Arvigo, il cui impegno sociale, al pari di quello artistico, risultano di indubbio interesse, vorrebbe essere un’occasione per indagare insieme, seppure in maniera soltanto parziale, il modo in cui certe convinzioni consolidate hanno perso di rilevanza nel contesto contemporaneo. Ne sono un esempio i concetti di catarsi tragica e di teatro borghese, accompagnati dall’urgenza di ripensare il momento della guerra e, non ultimo, il ruolo della critica.
Entrare nel mondo di un’attrice del calibro di Elena Arvigo, anche solo per il tempo di un’intervista, significa impegnarsi a instaurare un rapporto di fiducia profondo, sincero, in cui il perbenismo non trova più spazio. Per questo motivo la sua interpretazione di Andromaca, nell’allestimento di “Troiane” andato in scena nel 2019 presso il Teatro Greco di Siracusa, per la regia di Muriel Mayette-Holtz, mi è sembrato un modo assai utile di proseguire la riflessione dedicata a questa tragedia euripidea (già affrontata in merito all’allestimento di Chiodi), in attesa della nuova stagione siracusana.
Se la tragedia implica, per definizione, la catarsi, come mai quest’ultima appare ormai del tutto assimilata al concetto di commozione?
In epoca arcaica, la catarsi avveniva — basti pensare al rito del capro espiatorio — anche senza che ci fosse bisogno di una storia. In teatro accade, invece, qualcosa di diverso, perché accanto al discorso sulla catarsi come purificazione esiste la dimensione ulteriore della rappresentazione, che si para davanti allo spettatore e, dunque, quella della storia, nonostante quest’ultima sia conosciuta, condivisa, mitologica. Il teatro, per dirla con Sarah Kane, metta in scena degli eventi, affinché essi non accadano, in cui fondamentalmente a emergere nella rappresentazione è la complessità dell’animo umano, ovvero la sua accettazione. In tragedie come “Medea” e “Antigone” a essere preso in esame non è l’atto violento in sé e per sé, bensì la profondità e la riflessione che scaturiscono da determinate situazioni, ad esempio in merito alla possibilità di dare la vita o la morte a un altro individuo. Ne è un esempio l’ “Antigone”, in cui allo spettatore non è richiesto di dare ragione o di condannare Creonte o Antigone, bensì di compiere una riflessione sulla grandezza e la profondità dell’animo umano, che è quanto di più nero e luminoso possa esistere. Detto ciò, il discorso sulla pietà può essere risolto solamente a partire da una contestualizzazione storica.
Non saprei dare una definizione di ciò che oggi le persone credono sia catartico, ma dubito che il teatro possa esercitare ancora questo ruolo. Il teatro richiede un’abitudine e una prassi, che solo qualora vengano sviluppate in giovane età rendono possibile instaurare un approccio, che vada al di là della mentalità borghese, improntata alla sua relazione con la merce. Nonostante ciò possa apparire paradossale, tale mentalità non trae origine semplicemente da fattori economici. Che si tratti dell’aristocratico o del proletario, l’individuo ‘anti-borghese’ non instaura questo rapporto di possesso e desiderio della merce e, pertanto, non ha a che fare nemmeno con un certo tipo di sentimenti, quali l’invidia o il bisogno di adeguarsi a una determinata moda.
Il borghese ha un rapporto con il teatro o con qualsivoglia tipo di evento, che è basato sull’idea di merce, in quanto rapporto di mercato e non culturale. Pertanto, diventa difficile per me capire cosa sia oggi la catarsi, perché essa implica un rapporto di conoscenza, che non coincide con l’immedesimazione e che quindi differisce da ciò che avviene, ad esempio, al cinema. Ne sono un esempio quei film che ci rapiscono e inducono al pianto con grande facilità, sfruttando immagini pensate per toccare determinati tasti, il cui fine è quello di farci commuovere oppure di farci sentire fondamentalmente in colpa. Mentre negli spettacoli dal vivo (di un certo livello) lo spettatore, nell’atto della visione, diventa anche testimone.
Il ruolo testimoniale dello spettatore non si può svolgere al modo di una tifoseria, perché si tratta di un approccio di pensiero. Oggi si tende a scambiare la catarsi con la commozione e il pianto, ovvero per un rapporto emotivo che non ha niente a che vedere con questo concetto. Uno spettacolo è catartico quando lo si riesce a comprende appieno, così profondamente da rendere lo spettatore capace di purificarsi da un pregiudizio o da un’opinione grazie alla visione. Non si tratta di cambiare idea sula base di qualcosa che è giusto o sbagliato, bensì di ampliare il proprio orizzonte conoscitivo. Da questo punto di vista, non è sbagliato credere che Medea sia un’assassina, perché quest’ultima è anche un’omicida, ma la visione che sia ha della tragedia deve essere complessiva e, quindi, non può prescindere da un’apertura alla totalità.
In che modo la serietà della guerra (così centrale in “Troiane”) diventa uno strumento per resistere e opporsi al processo di spettacolarizzazione della tragedia?
Uno degli aspetti più incredibili di “Troiane” è la possibilità di dare voce alle donne durante la guerra, nonostante protagonisti di quest’ultima siano sempre gli uomini. Euripide coglie, infatti, un aspetto essenziale della questione, contenuto proprio nel monologo di Andromaca, quando dice: «Ah, Greci, tanta saggezza e poi questa barbara violenza! Che senso ha uccidere un bambino così, che non ha colpe?». Si tratta di un passaggio davvero struggente, perché testimonia come la volontà di estirpare il futuro di una comunità coincida sempre con le fasi finali della guerra, in cui la paura fa da leva nello spronare le persone a considerare l’altro come un nemico.
La guerra è un inganno – o forse un inganno necessario – di cui è impossibile parlare. Il popolo è ingannato, perché viene chiamato alla guerra per difendere se stesso, mentre in realtà è costretto a difendere il potere di chi comanda. La guerra ha, d’altra parte, sempre delle motivazioni economiche, per cui anche una figura come quella di Elena non può che esercitare un ruolo del tutto simbolico.
Che valore dà Andromaca al suo ruolo di madre e in cosa si distingue l’idea antica di maternità?
La vita continua soltanto per chi ha la forza di continuare. E’ questo, in fondo, il senso del personaggio di Andromaca, che grazie alla sua straordinaria forza può, nonostante tutto, continuare a vivere. La sua, però, non è una forza di tipo ‘maschile’ come fosse una guerriera, bensì tipicamente femminile. Nonostante mi risulti davvero difficile guardare con un occhio esterno a questo personaggio, dopo averlo interpretato, posso dire che quest’esperienza ha rappresentato per me una prova fisica decisamente impegnativa, in cui centrale è stata l’idea che non si trattasse di una donna come le altre, ma di una regina.
Quelle tragiche sono figure pensate per dare voce agli aspetti più consolidati e ricorrenti dell’umanità. Il discorso di Andromaca dopo la condanna di Astianatte ne è un esempio, perché nonostante non sia realmente accaduto, rimane così realistico da ‘spaccarti il cuore’. Andromaca è un personaggio, per certi versi, insopportabile da interpretare e non credo che potrei rifarlo in questo momento, perché mi compromette troppo emotivamente. E’ dolore allo stato puro, perché a partire dalle sue vicende è messo in scena uno degli episodi più violenti di tutti i tempi, in cui viene quasi ‘fotografato’ il momento in cui il suo bambino le viene strappato via, per poi essere buttato giù da una rupe.
Qual è l’importanza dei traduttori e in che modo si articola il rapporto tra filologia e esigenze della prassi teatrale?
Il problema fondamentale di una traduzione come quella di “Troiane” è che chi traduce non arriva mai per primo. Pertanto, una nuova traduzione deve fare, innanzitutto, i conti con la sua originalità, ponendosi in maniera inedita rispetto alle altre. Quindi, non si tratta semplicemente di compiere una traduzione, bensì di conferire uno stile a quest’ultima.
Lo stile di Grilli (ndr Alessandro Grilli è il traduttore di “Troiane” per questo allestimento) è, a mio avviso, orientato a una modernizzazione, in cui evidente è il rischio di tradire il testo originale o impoverirlo. In quanto, a volte, c’è semplicemente bisogno di preservare un certo tipo movimento – anche un po’ arcaico, se vogliamo – della frase e del pensiero, per evitare che altrimenti, per paradosso, ciò che viene detto appaia inverosimile. La semplificazione non è sempre una soluzione che rende le cose più dicibili, perché la questione da semplicemente terminologica diviene ritmica. Se le immagini di cui è composto il testo sono impoverite continuamente, in favore di uno stile più colloquiale, alla fine a rimanere saranno soltanto delle parole. Amo molto le traduzioni che perseguono l’originalità, ma che, in qualche modo, non sacrificano la complessità delle immagini, in favore di una ‘pulizia stilistica’.
Come è stato lavorare con Muriel Mayette-Holtz ?
Mi è piaciuto molto lavorare con lei, perché Muriel è una grande attrice, che ama molto gli attori istintivi (come me) e le sono grata per avermi letteralmente accompagnato in questo percorso.
Qual è stato il riscontro da parte della critica?
Recitare nel Teatro Greco di Siracusa è senz’altro molto difficile. Inoltre, gli allestimenti siracusani sono operazioni quasi commerciali, in cui la presenza della critica perde a volte di senso. Il lavoro di Muriel era orientato a una naturalezza difficile da rendere ogni sera con la stessa forza, motivo per cui lo spettacolo subiva, di volta in volta, grandi variazioni. Essendo lei, innanzitutto, un’attrice, la recitazione e la verità dei rapporti sono state le sue priorità, al pari di molti altri registi di scuola francese, che hanno lavorato a Siracusa prima di lei. Ciò che è stato detto e scritto su “Troiane”, quindi, non ha secondo me molto a che vedere con lo spettacolo vero e proprio, ma è dipeso da ragioni ‘politiche’.