Iacozzilli fa pace. con arte, con la vita
di Marco Buzzi Maresca
“Dov’è il re? […] ordina al vento di soffiare […] soffia vento .. che questo diluvio arrivi a sommergere i campanili”
Così alcuni frammenti del Re Lear recitati nello spettacolo ‘Il grande vuoto’ (prima nazionale – Romaeuropa Festival, Teatro Vascello, 15-19.11.2023), ultima puntata della ‘Trilogia del vento’ di Fabiana Iacozzilli, inaugurata con “La classe” e proseguita con “Una cosa enorme”.
E potremmo chiosare ulteriormente ‘Tessi tessi, tessitore del vento’ (Joyce, Ulisse).
Il vento come distruzione, nonsenso, violenza del tempo che scorre, dissolvenza e inconsistenza dell’umano. Non certo quello dell’Ode al vento occidentale, di Shelley, sinonimo di vita e rinascita.
O sì .. ? La Iacozzilli oscilla. Distruzione o rinascita?
La sua trilogia problematizza le tre età della vita, in generale, ma anche specificamente – in chiave autobiografica e femminile – la propria infanzia, la maternità come abnorme tormento, ed infine ora l’incontro scontro tra la figlia adulta e la madre, quando la memoria sembra azzerarsi, azzerando il dialogo, o forse ricostruendolo, facendo cioè della figlia la madre della madre, e non più solo richiesta.
Certo sembra che il fulcro della trilogia sia proprio il tentativo di esprimere e sanare il conflitto col materno. In ‘La classe’ infatti giganteggiava una suora sadica alle elementari, una dura mater, ed in ‘Una cosa enorme’ il divenire madre è una enormità da cui sfuggire.
Ma qui è diverso. Accanto al negativo del rapporto madre figlia, compaiono elementi che sparigliano.
Da un lato si apre con la scena comico patetica dell’amore padre madre, ormai vecchi, col loro incastro di memorie manie abitudini. Dall’altro fa da leitmotiv ambivalente – positivo e negativo – la matrioska, come simbolo del seme e dell’eterna rinascita, anche se qui pietrificata nell’eterno ritorno di una memoria senza relazione.
Il plot è semplice.
I due vecchi si amano fino alla fine, e dai loro discorsi emerge amore per i figli, un maschio e una femmina. Poi il marito muore (un incidente d’auto?), e la scena diventa quella di una eterna cena madre figli, apparentemente identica, ma che da sottili segnali si palesa come una cena ripetuta nel tempo, e che mostra il progressivo deterioramento della memoria della madre (Alzheimer?), fino al non più riconoscere nessuno.
I figli oscillano tra tormento e rabbia (più remissivo e tollerante il maschio, più angosciata la figlia). Una memoria tuttavia resiste, quella della tournée in Russia della madre, dove recitò nel Re Lear, e dove le fu regalata la matrioska.
Sarà casuale ? Direi molto simbolico, ed il punto forte e poetico dello spettacolo. Si sa. Lear è la tragedia dell’incapacità di vedere i sentimenti dei figli, ed anche la tragedia della vecchiaia e dell’orgoglio. E quando il contatto con Cordelia si realizza, lei muore.
E allora, questa madre che amava il marito (ma nella prima parte comica spesso lo critica anche) sapeva essere in contatto coi figli ? E sarà un caso che ricordi ancora e solo un episodio narcisistico della propria vita ?
La figlia, prediletta del padre, e perciò più orfana e tormentata del fratello, ha momenti di disperazione isterica per il carcere della ripetizione a cui la madre li sottopone, ma forse anche vede nel non ascolto ormai demente della madre lo specchio ingigantito di un prima. C’è un aspetto di deserto interiore che incombe.
Si vede che la madre ha qualche momento breve di smarrimento e coscienza, ma non ascolta i figli, e sempre conclude raccontando della Russia. Ma i segnali si intensificano, e alla statica tavolata a centro scena si aggiunge una badante. Poi segue un momento in cui finalmente la madre è sola in scena. E’ sola ed è l’emblema muto, gestuale e patetico, della solitudine. Comincia infatti a svuotare sul tavolo – da un mobile dietro – gli oggetti della memoria, o forse ormai del debole fantasma della memoria: i vestiti di lui, e poi bambole (proprie o della figlia?), e poi giocattoli da maschio.
E tutto questo mentre in alto il suo smarrimento si reduplica in uno schermo stretto e orizzontale come il tavolo, e diviso in settori (telecamere la sorvegliano quando sola, ma c’è in tutto ciò qualcosa di onirico). Un settore è a colori, ed in un primo piano ingigantito riprende quello che sta facendo lei in scena, e soprattutto gli oggetti, come nature morte della memoria. Gli altri settori, due o tre, sono in un pallido bianco e nero (ma più bianco) ospedaliero – simbolico e mesto, quasi psichiatrico – e la riprendono seminuda e assente, seduta sul letto, o attonita sul water, o mentre triste guarda nell’armadietto del bagno il rasoio superstite del marito.
Dopo la prima parte un po’ statica e ripetitiva qui lo spettacolo risale grazie alla sapienza onirica, visiva e gestuale, della Iacozzilli (la sua carta vincente).
Peccato che prima della splendida esplosione finale (un difetto che avevo già notato in ‘La classe’) la regista non resista dal sovrapporre alla tutta chiara mestizia gestuale, ed al dolore di sguardo filiale in ciò perfettamente implicito, non resista, dicevo, dall’aggiungere, in voce off, considerazioni personali, “mi chiedo … ci penso… mi vergogno”. E così via, con riflessioni di tristezza, e con una chiusura facilmente poetica, e troppo vicina al patetico “Mi chiedo … se c’è un modo per trasformare questo dolore in bellezza”. Una frase ad effetto, forse semplice, ma che per fortuna fa da ouverture e trampolino di lancio alla catarsi esplosiva finale.
Sì. Si può trasformare il dolore in bellezza. E direi, da quello che propone in scena, rinunciando a sé e donandosi all’altro, e qui al gioco della madre, diventando con lei bambina, e madre sua, azzerando conflitto e disperazione.
Ora la madre è sotto a un tavolo, come un pazzo, come il folle e spaventato re Lear.
Ma i figli travestiti, e la badante, la invitano a recitare con loro, a giocare, e la trasformano in re Lear. E come il pazzo re accompagnato dal suo fool usciva spaventato dal suo rifugio, la madre ricurva esce, abbracciata dalla figlia, e viene accompagnata a sedersi in trono, in trionfo. Una coperta per mantello, e una corona di carta. Recitano le parole del Lear, mentre progressivamente la luce accieca ed un sonoro di temporale pian piano sovrasta e cancella. Poi, buio, e dissolvenza.
Gli attori bravi tutti, anche se la prima parte statica un po’ li penalizza. Star indiscussa tuttavia per tutto lo spettacolo, per mimica, sapienza di toni, gestualità, la madre – una splendida Giusi Merli. Una esplosione di energia. Una attrice che viene da lontano, e che ha molto da dire.
Il grande vuoto di Fabiana Iacozzilli – dramaturgia Linda Dalisi – con Ermanno De Biagi, Francesca Farcomeni, Piero Lanzellotti, Giusi Merli e con Mona Abokhatwa per la prima volta in scena – progettazione scene Paola Villani – luci Raffaella Vitiello – musiche originali Tommy Grieco – suono Hubert Westkemper – costumi Anna Coluccia – video Lorenzo Letizia – scenotecnica Mauro Rea, Paolo Iammarrone e Vincenzo Fiorillo – fonico Jacopo Ruben Dell’Abate – direzione tecnica Francesca Zerilli – aiuto regia Francesco Meloni – assistenti Virginia Cimmino, Francesco Savino, Veronica Bassani, Enrico Vita – collaborazione artistica Marta Meneghetti, Cesare Santiago Del Beato – foto di scena Laila Pozzo