A 60 anni dalla tragedia della diga del Vajont, il testo di Marco Paolini è una performance di memoria collettiva.
Alle 22.39 del 9 ottobre del 1963 dal monte Toc, dietro la diga del Vajont, si staccano 260 milioni di metri cubi di roccia che cadono nel bacino sottostante. Nel paese di Longarone inizia a soffiare un forte vento freddo, frutto dell’aria sospinta da 50 milioni di metri cubi di acqua che hanno appena compiuto un salto di oltre 260 metri dalla diga. Un’onda alta 70 metri alla velocità di 80 km/h sta per abbattersi sulla valle; sullo sfondo lampi per i cavi dell’elettricità strappati e un agghiacciante boato, un rumore “inspiegabile” come affermeranno i pochi superstiti.
In 4 minuti la catastrofe si abbatte su Longarone e i paesi limitrofi di Pirago, Rivalta, Villanova e Faè seppellendoli sotto metri di acqua e fango, 2000 morti.
“Quanto pesa un metro cubo d’acqua?”
“Un metro cubo d’acqua? Mille chili, una tonnellata, una tonnellata va bene?”
Inizia così VajontS 23, il progetto di Marco Paolini per La Fabbrica del Mondo, realizzato da Jolefilm in collaborazione con Fondazione Vajont.
Un lavoro di teatro civile tratto dal testo del 1993 Il racconto del Vajont di Paolini e Gabriele Vacis qui riadattato in collaborazione con Marco Martinelli.
Un testo che più che di “disastro naturale” ci parla di vergogna; la vergogna di una storia di fallimento statale che intreccia interessi privati e pubblici omertosi nei confronti di rischi e perdite umane.
Le cause furono ricondotte a progettisti e dirigenti della SADE (Società Adriatica Elettricità) e all’azione ultima di nazionalizzazione, processo durante il quale vennero coperti con dolo i dati di non idoneità dei versamenti nel bacino a rischio idrogeologico. Una storia che il testo di Paolini mette in luce fin troppo bene partendo dal 1929 con la prima progettazione da parte della SADE, alle approvazioni irregolari del Consiglio superiore dei lavori pubblici, agli ampliamenti rischiosi delle misure della diga (allora la più alta del mondo), infine alla pesante sottovalutazione di frane avvenute nei territori limitrofi e dallo stesso monte Toc prima della tragedia.
Nel testo anche i tentativi di Erto e Casso, i paesi adiacenti alle sponde della diga, ai cui abitanti vengono espropriate case e terreni dallo Stato durante la costruzione dell’opera. Inascoltati e preoccupati dallo stato della montagna i cittadini istituiscono un comitato, ma l’unico articolo di denuncia è della giornalista Tina Merlin, senza alcun esito. Erto e Casso persero 158 persone nella tragedia.
Ed è proprio su questa storia di omertà che lo spettacolo si intreccia, ragionando e facendo ragionare in più di 150 teatri in contemporanea: dalla Sicilia al Trentino Alto Adige, dai grandi teatri a quelli di provincia arrivando anche all’estero con Parigi, Maiorca, Ginevra ed Edimburgo. Spettacoli di orazione civile messi in scena da grandi attori ed allievi di scuole di teatro, musicisti e danzatori.
Sul palco del Teatro Nuovo di Verona con il coordinamento artistico di Alberto Rizzi e Stefano Scherini vi sono dieci attori che ripercorrono dai loro leggii la storia di una catastrofe che di “solo naturale” ha ben poco. Vestiti di nero gli attori sono posizionati a semicerchio, al centro i venti coristi, seduti a terra; “cosa sa la commissione della frane?” ripetono all’ unisono, nel grido disperato degli abitanti di Erto e Casso.
L’ illuminazione è soffusa, alternata a toni più accesi nei momenti più intensi, la scenografia è spoglia, senza alcun allestimento se non il retropalco del teatro, un’ambientazione che ricorda quasi un cantiere e che ben si sposa con il racconto di costruzione della diga.
Anche la musica è assente, se non alle 22.39, momento della tragedia, qui il suono di un campanile rintocca per un minuto contemporaneamente in tutte le rappresentazioni teatrali del progetto. Un suono che sembra infinito, dove attori, coristi e pubblico stanno in assoluto silenzio, in un’atmosfera di rispetto e suspense dove ad illuminare la scena vi è solo una luce viola soffusa.
“Vajont è anche questo, 1000 bare con qualcosa dentro e quasi altrettante vuote (…) 5 paesi, migliaia di persone ieri c’erano, oggi sono terra, (…) il più grande funerale che abbia mai attraversato questo Paese dopo Caporetto” leggono gli attori.
Con la storia del Vajont qui rievocata e riadattata si porta in scena il valore e potere del teatro civile non come mero strumento di memoria bensì come possibilità di ragionamento. Ragionamento su errori evitabili e che non ci si può permettere, come cita lo stesso Paolini: “La storia del Vajont è composta da segni ignorati e ogni volta che accade qualcosa che ci sorprende significa che non abbiamo elaborato la lezione. Dunque oggi dal punto di vista della funzione civile del teatro, c’è quella di mettere insieme le persone per raccontare che siamo tutti potenziali vittime”.
Non più solo un racconto di memoria e denuncia sociale, bensì un “risveglio”, il racconto fatto di tanti piccoli cori per richiamare attenzione viva su quello che potrebbe accadere. A tal proposito tema “vivo” quello dell’acqua su cui Paolini afferma: “È uno degli argomenti più semplici che fanno parte dell’Agenda 30 delle Nazioni Unite per lo sviluppo sostenibile, è un punto di partenza per ragionare sulla complessità”.
Un’onda di teatro civile che affronti la sfida della crisi climatica, Alla luce delle recenti frane ed alluvioni che hanno colpito l’Emilia Romagna la scorsa estate la scena diventa più che mai atto reale e necessario, che guarda al passato per il futuro, un futuro fatto di ambiente e di responsabilità non più evitabile. “I terremoti non sono ancora prevedibili, le alluvioni lo sono di più, così come la siccità (…) ad ogni catastrofe sentiamo ripetere parole che non servono ad impedirne altre. Noi non siamo scienziati, né ingeneri, né giudici. Ma sappiamo che il racconto attiva l’algoritmo più potente della nostra specie: i sentimenti, le emozioni. Sono la colla di un corpo sociale e ora ci servono per affrontare quello che ci aspetta” afferma Paolini.
Una “Prevenzione Civile” ciò di cui parla il drammaturgo, per aprire alla consapevolezza, alla tutela del rischio dell’ambiente e della vita. Un fare rete necessario che vede nel teatro un buon punto di partenza.
Dal testo Il racconto del Vajont di Marco Paolini e Gabriele Vacis; riadattamento teatrale con la collaborazione di Marco Martinelli. Presso il Teatro Nuovo di Verona con il coordinamento artistico di Alberto Rizzi e Stefano Scherini, movimenti in scena di Marcella Galbusera. Con Lorenzo Bassotto, Riccardo Caserta, Andrea Castelletti, Pino Costalunga, Jessica Grossule, Andrea De Manincor, Chiara Mascalzoni, Sabrina Modenini, Laura Murari, Solimano Pontarollo, Valeria Raimondi, Giovanna Scardoni, Stefano Scherini. Coro degli allievi dei laboratori teatrali RSVP (Rete Professionisti Spettacolo Verona).Produzione RSVP.
Foto copertina: Marco Paolini