La querelle
La pubblicazione del libro Il Mondo al Contrario, scritto dal Generale Roberto Vannacci, ha suscitato, in questi giorni, le opinioni più disparate, sia nel mondo politico, sia in quello mediatico, con pesanti ripercussioni sul suo incarico militare.
Il Generale, infatti, è stato sollevato dal suo ruolo di Capo dell’Istituto Geografico Militare di Firenze e messo a disposizione del Comando delle Forze Operative Terrestri. Suo sostituto il Generale Massimo Panizzi.
Il Generale Vannacci, nel suo libro, esprime opinioni che, nella nota d’autore introduttiva, specifica essere personali e totalmente estranee alle posizioni istituzionali o di altre organizzazioni statali e governative. Vieppiù non tratta argomenti attinenti al compito svolto nell’Istituto Geografico. Nonostante ciò, si è gridato allo scandalo proprio perché ricopre una carica istituzionale. Eppure, quando il Senatore Giulio Andreotti espresse la sua opinione sugli omosessuali, consigliando all’Onorevole Prodi di andarsi a rileggere Dante per capire in quale girone dell’Inferno li avesse collocati, cosa altamente offensiva e ingiusta, non mi sembra sia stata chiesta la sua testa. In questo caso, invece, c’è chi ha gridato allo scandalo, sollevando una bagarre spropositata e chiedendo a gran voce addirittura la cacciata dalle Forze Armate del Generale, il tutto non già per dichiarazioni offensive come quelle andreottiane, ma per una libera (non così tanto, a quanto pare) espressione delle proprie opinioni, cosa che non solo è sancita dall’art. 21 della Costituzione, dall’art. 10 della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali e dall’art. 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, ma anche dall’art. 1472 del Codice dell’Ordinamento Miliare (D. Lgs 66/10), in cui testualmente si afferma:
«I militari possono pubblicare loro scritti, tenere pubbliche conferenze e comunque manifestare pubblicamente il proprio pensiero, salvo che si tratti di argomenti a carattere riservato di interesse militare o di servizio per i quali deve essere ottenuta l’autorizzazione.
Essi possono, inoltre, trattenere presso di sé, nei luoghi di servizio, qualsiasi libro, giornale o altra pubblicazione periodica.
Nei casi previsti dal presente articolo resta fermo il divieto di propaganda politica».
Orbene, considerato che non sono stati affrontati argomenti che avrebbero richiesto autorizzazione, c’è da chiedersi se sia stata fatta propaganda politica, in questo libro. Io non l’ho vista. Ho visto un tantissime opinioni su varie questioni, una sorta di flusso di coscienza, di lunga chiacchierata con gente sconosciuta, quello che, in Inghilterra, sin dai tempi in cui non esisteva internet, si fa salendo su una cassetta di legno nello Speakers’ Corner di Hyde Park.
Il fatto che il libro si fondi su mere opinioni personali può essere desunto anche dall’assenza di fonti, se non una parca sitologia, e dal linguaggio che, a volte, si fa informale, colloquiale, come se quelle parole fossero dirette ad amici, a familiari. Molte delle sue affermazioni, inoltre, si basano su esperienze personali formate in varie parti del mondo, parti in cui noi tutti, facili ai commenti espressi con la tastiera di un computer nelle nostre case dotate di aria condizionata, non andiamo, certo, in vacanza; terre in guerra o in una pace fatta di miseria, di cui non sappiamo nulla. Si può non concordare con ciò che ha scritto, ma non si può non tenere conto della sua testimonianza. Infine, l’impronta personale del libro si desume anche dai ricordi familiari, che di quando in quando si affacciano e che ho trovato molto toccanti: il nonno classe 1898, con tre guerre sulle spalle e l’idea di Patria nel cuore, o il suo sentirsi assolutamente e profondamente italiano anche quando viveva in quel di Parigi.
Il libro
L’indice ci dà la misura di quello che dobbiamo affrontare nella lettura: ambientalismo, energia, società multiculturale e multietnica, sicurezza e legittima difesa, la casa, la famiglia, la Patria, quello che lui chiama “pianeta lgbtq+++”, le tasse, la città e l’animalismo. Ma il leit-motiv viene enunciato nel primo capitolo, intitolato Buonsenso.
Vannacci afferma di scrivere secondo buonsenso, ossia secondo il senso comune, un senso che nasce dalle nostre percezioni capaci di determinare la realtà. Vero. Ed è vero anche che ciò non toglie la possibile coesistenza in uno stesso luogo di diverse realtà, fondate su diverse percezioni, diversi sensi. Prigioniera, come sempre, delle mie finestre interiori aperte sul mondo dell’arte figurativa e recitativa, mi viene in mente una litografia di M. C. Escher, Relatività: più persone si muovono nello stesso quadro, ma in mondi diversi, che non si incontrano mai. E mi viene in mente anche il bellissimo film The Others, tratto dal libro di Henry James Giro di vite, nel quale vita e morte, in un rapporto invertito, convivono senza toccarsi. Ma è quel non incontrarsi, quel non toccarsi che rende possibile la coesistenza? Vannacci cita Cartesio, «Cogito ergo sum», esisto in quanto penso, in quanto percepisco con il pensiero la realtà che mi circonda, formando il mio senso della vita, il mio buon-senso. A me sovviene anche ciò che diceva Berkeley: «Esse est percipi», esisto in quanto percepito dagli altri. Ciò significa che la non accettazione da parte degli altri comporta l’inesistenza, l’annientamento. Un concetto che dovrebbe valere per tutti, però: per le categorie protette, certo, per coloro che sono stati a lungo discriminati, ma anche per coloro che provengono da una società che, in passato, ha discriminato. Cessare la discriminazione non significa doversi piegare alla non esistenza della propria realtà, fatta di tradizioni, di credo, di idee.
Vannacci parla della famigerata e antievoluzionistica cultura della cancellazione; parla di un capovolgimento della tradizione culturale italiana in nome dell’inclusività e del politicamente corretto, cui accosta considerazioni antropologiche; e parla di un diritto a dissentire che vale solo per chi non concorda con il sistema valoriale della maggioranza, perché, a parti inverse, il diritto a dissentire c’è e non poco. Porta vari esempi, in proposito. Uno in particolare fa riflettere: l’omofobia. Non concordare con l’adozione per i gay, ad esempio, rende omofobi e la fobia è un disturbo psichico. Chi non concorda è un “disturbato”, dunque, e, essendo il disturbo, per sua stessa definizione, un’eccezione rispetto alla norma, i primi a dipingere una normalità alternativa e prevaricatoria sono proprio coloro che si dicono nemici della normalità altrui.
Questo ragionamento vale in tantissime altre situazioni, ovviamente. La tendenza odierna è quella a criminalizzare il pensiero contrario, manifestando il malcontento anche in modo non del tutto pacifico. Si pensi ai monumenti imbrattati dagli attivisti ambientalisti.
Mi chiedo cosa accadrebbe se gli Amish calassero in massa nelle città americane e volessero imporre il proprio stile di vita misoneista, distruggendo automobili, troncando i cavi dell’elettricità e tacciando come assassini del pianeta le persone di diversa idea.
Si può pensare ad una taratura ad personam del concetto di libera espressione?
La libertà di uno finisce dove inizia la libertà dell’altro. Così si dice. Pensiero tanto apprezzabile quanto utopistico. Andrebbe bene se in Italia avessimo l’antropizzazione delle isole Fær Øer, ma così non è. E quanto propone Vannacci è semplice e segue la logica, segue il buonsenso: quell’adagio sui confini della libertà deve essere applicato partendo dal concetto di collettività e, dunque, di maggioranza. Credo che ognuno di noi sia andato almeno una volta ad una riunione di condominio: le decisioni vengono prese a maggioranza. Se così non fosse emergerebbe solo il conflitto: io voglio la luce sulle scale e metto una lampadina, il vicino ama il buio e la toglie … Entrambi siamo liberi di vivere come crediamo, ma deve subentrare ciò in cui crede il resto dei condomini, altrimenti non se ne esce. Non a caso, scrive Vannacci, le società più multietniche sono anche quelle dove sorgono maggiori conflitti, poiché i diversi sistemi valoriali si scontrano e, a testimonianza di ciò, racconta proprie esperienze di vita, anche militare, in altri Paesi. Su un punto non concordo: l’incidenza delle differenze fisiche nel sistema valoriale di una Nazione. Il Generale porta ad esempio Paola Egonu: «Anche se Paola Egonu è italiana di cittadinanza, è evidente che i suoi tratti somatici non rappresentano l’italianità che si può invece scorgere in tutti gli affreschi, i quadri e le statue che dagli etruschi sono giunti ai giorni nostri» (p. 110). Personalmente trovo affascinante la differenziazione somatica, anche in riferimento al colore della pelle, che, comunque, non è totalmente estranea alla tradizione più lontana della nostra Nazione. In Sicilia, ad esempio, si venera un santo nero, San Calogero. Certo, il “tipo italiano” è tutt’altro, guardando sempre alla maggioranza. Secondo me, però, parlando in termini di italianità il problema non riguarda tanto il colore della pelle o i tratti somatici, quanto l’affezione per le tradizioni, per la storia, per il territorio, per la società italiana; l’attaccamento alla Nazione, alla gente. Questo sì che crea distinzione tra cittadino e non cittadino. E la signora Egonu ha anche manifestato idee aspramente critiche sul popolo italiano, salvo poi scusarsi.
La “normalità” della maggioranza
Che, poi … normalità! Un concetto proteiforme. Un matematico, un ingegnere, un fisico risponderebbero che normale è una linea retta perpendicolare. Perché è questo il suo significato proprio; questo è ciò che l’etimo latino insegna. I linguisti, però, direbbero che l’accezione contemporanea deriva anche dal francese: adeguamento ad una norma. Ma quale norma? Nel progressivo impoverimento della lingua italiana abbiamo perduto in molti il senso autentico delle poche parole che usiamo, sicché norma è essenzialmente quella assiologica che presuppone un giudizio qualitativo dei valori che la sottendono. Da qui nascono le prescrizioni e le proscrizioni delle norme etico-religiose e di quelle giuridiche, nonché le determinazioni di quelle mediche. Ed è proprio su queste ultime che si è posata una parte dell’indignazione di questi giorni: «A chi hai detto anormale?»
Normale, però, nel suo senso francese, ossia di aderente alla norma, è molto più di questo. Può darsi che io mi sbagli, ma, leggendo il libro, mi è sembrato di cogliere un concetto di normalità più vasto, aderente solo in parte alla norma assiologica, attraverso alcuni giudizi a volte un po’ tranchant ma assolutamente leciti, e, per il resto, aderente a quella statistica e a quella funzionale e in nessuno di questi due casi in termini offensivi.
La norma statistica è quella desunta dalla frequenza media di alcuni fenomeni, dalla durata nel tempo, dal numero di persone coinvolte. Attinge a valutazioni quantitative e non qualitative. Ed è ciò di cui parla Vannacci a proposito di rispetto delle tradizioni. Fa tantissimi esempi, come il crocifisso nelle scuole, considerato “divisivo” da una minoranza di persone alle quali, chissà perché, deve essere data una voce che vale il doppio. Vannacci la definisce dittatura delle minoranze. E così per quanto riguarda il concetto di Patria, di famiglia, di bandiera, di confini et similia; così per quanto riguarda le categorie protette, per le quali, in alcuni casi, non valgono le regole della meritocrazia; così per quanto riguarda quelli che nel libro vengono efficacemente definiti diritti differenziati, ossia l’uso indiscriminato di due pesi e due misure, per cui la legge non è più uguale per tutti: in territorio italiano, ad esempio, le donne islamiche possono girare a viso coperto, ma vi sono norme che, in assenza di giustificato motivo, lo vietano a tutti gli altri (art. 85 R.D. 773/31 e art. 5 L. 152/75); in territorio italiano i rom e alcune categorie di stranieri possono esercitare un accattonaggio assillante, vietato a tutti gli altri (art. 669 bis c.p.); in territorio italiano, occupare una casa dà adito a dei diritti non codificati che soffocano i diritti esistenti e facenti capo alla proprietà, all’usufrutto, alla locazione; in territorio italiano, nel 2017, dal Comitato delle Pari Opportunità della Corte d’Appello di Salerno giunse la difesa di uno stupratore straniero perché non poteva sapere che in Italia era vietato stuprare su una spiaggia, ma l’ignoranza della legge non scusa tutti gli altri (art. 5 c.p.) … Siamo arrivati al punto di tutelare a gran voce la privacy dei ladri mentre rubano: non bisogna riprenderli e, soprattutto, non bisogna pubblicare quei video per avvisare gli altri del pericolo.
Tuttavia, da ex tiratrice sportiva con revolver, non concordo sull’estensione dell’autodifesa armata prospettata da Vannacci e, conseguentemente, sull’ampliamento del concetto di proporzionalità tra offesa e difesa di cui all’art. 52 c.p. Tanti anni fa, quando ero allieva al Poligono di Roma, l’allora direttore disse a tutti noi una cosa che mi rimase stampata a fuoco nella mente: se girate armati e vi trovate in una situazione che richiede l’uso dell’arma, nell’estrarla dalla fondina ricordatevi che dovete essere pronti a sparare, ad uccidere. Se esitate siete morti, perché il delinquente che avete di fronte non avrà la vostra stessa naturale esitazione. Io non sarò mai pronta ad uccidere. Forse è per questo che non ho mai preso il porto d’armi neppure quando facevo le gare. Non amo, dunque, l’idea del Far West in città, sebbene concordi sul fatto che siamo sotto assedio. La delinquenza ci ha prevaricati e siamo costretti a blindarci a casa come faceva Charlton Heston in un memorabile film, 1975. Occhi bianchi sul pianeta Terra.
Resta il fatto che, parlando di normalità in senso statistico, Vannacci non fa altro che ragionare democraticamente. Lui afferma chiaramente di non voler cambiare il mondo degli altri, ma di non volere, altresì, che gli altri cambino il suo. La famosa riunione di condominio di cui parlavo poc’anzi, in cui i confini delle libertà – i confini, attenzione, non le libertà stesse – sono segnati dal volere della maggioranza. Se ognuno facesse tutto quello che vuole, come nel film di Frank Capra L’Eterna Illusione, regnerebbe l’anarchia. E solo nei film l’anarchia assume un aspetto divertente e romantico. Nella realtà è abbastanza inquietante. Peraltro non esiste allo stato puro: c’è sempre il prevalere di una “normalità anarchica” su quella non anarchica. L’anticonformismo è un conformismo al contrario. Forse è per questo che, da parte di coloro che assumono atteggiamenti prevaricatori, si vuole bandire il termine “normalità”. Come se ciò bastasse a togliere l’elefante dalla stanza! «La normalità c’è. Esiste» scrive Vannacci «Non per questo è buona o cattiva, migliore o peggiore, ma non la si può negare in nome di un’artificiale e pretestuosa inclusività» (p. 193).
Normalità come espressione di un risultato evolutivo
La norma statistica non esaurisce la costellazione delle norme da cui desumere la “normalità” di cui parla Vannacci. C’è anche la norma funzionale, quella che non si riferisce ad uno schema di valori, qualitativi o quantitativi, bensì alla funzione, in termini di costi e ricavi, che la norma svolge nell’ambito del ciclo di vita del pianeta e degli uomini, avuto riguardo, per questi ultimi, sia ai rapporti sociali, sia a quelli biologici.
Uno degli aspetti affrontati nel libro è quello della Natura. L’Erma selvaggia di Leopardi, tale non per il pessimismo dell’autore, ma per il suo realismo. Clima, fonti di energia, vita animale … tutto risponde alle leggi di una Natura indifferente, né buona, né cattiva. La Natura è caos, scrive Vannacci. E l’uomo, con la sua attività, incide nel suo evolversi come una goccia nell’oceano. Lo dice la scienza. Ma la scienza, oggi, è seguita soltanto se e quando fa comodo a chi guadagna dal giro di affari che muove, per il resto si vanno a pescare, forse nelle prediche del Savonarola, le parole per osteggiarla o per creare una scienza opinabile, come ultimamente accaduto nel settore farmacologico, sebbene, in questo caso, Vannacci non la consideri tale. È così che nascono, ad esempio, i movimenti ambientalisti. E nascono in una piccolissima parte di mondo che definiamo civilizzato. Rivolgendosi idealmente a Greta Thunberg, Vannacci deplora quel ritorno al buon selvaggio, da lei auspicato stando nell’alveo delle proprie civilissime comodità: «Mi avete rubato i sogni – tuona l’adolescente scandinava, idolo di migliaia di altri giovani infervorati. Sulle rappresentazioni oniriche non mi sbilancio, ma il tanto disprezzato progresso industriale ti ha garantito la veglia ed il più che agiato presente. Ti ha fatto nascere in un ospedale, riducendo a numeri risibili la mortalità infantile; ti ha fatto crescere in una casa dotata di tutte le comodità, permettendoti di sviluppare altre capacità che non fossero connesse con la mera sopravvivenza; ti ha consentito un’educazione, grazie alle migliaia di altri uomini che lavoravano alacremente per questo servizio e ti consente di diffondere il tuo disprezzante messaggio, nei confronti di chi ha permesso tutto ciò, attraverso dei mezzi di comunicazione che continuano ad emettere quelle tanto denigrate tonnellate di CO₂» (p. 10).
Ho trovato molto interessante e assolutamente condivisibile quanto ha detto il Generale sulle fonti di energia. Bisognerebbe differenziarle il più possibile, evitando di criminalizzare sia i combustibili fossili, sia le centrali atomiche, che rappresentano uno dei sistemi meno inquinanti. E bisognerebbe scendere dalla giostra degli adeguamenti ecologici imposti su apparecchiature, automobili e case, adeguamento che incide in una percentuale praticamente nulla sull’ambiente, considerato che i Paesi più inquinanti non hanno adottato analoghi provvedimenti, anzi hanno amplificato l’uso dei carburanti fossili per implementare i cicli produttivi e rispondere alle domande di Paesi come il nostro dove, tra tasse e regolamenti ambientalistici, la produzione sta via via scemando. Soprattutto bisognerebbe adeguarsi ai cambianti che la Natura impone invece di pensarli come nemici, scatenando un allarmismo scientificamente ingiustificato e bloccando progetti utili come la realizzazione di dighe. Mi spaventa, invece, la sua sicumera nel prospettare come assolutamente vantaggioso l’uso degli OGM. Forse è un mio limite. Mi documenterò meglio in proposito.
Omosessualità e famiglia
Due dei temi più scottanti affrontati nel libro. L’Autore passa in volata sulla storia più antica dell’omosessualità: vissuta liberamente, poi scaraventata nell’ombra del peccato e dell’illegalità dalla Chiesa, quindi recuperata in età contemporanea.
Cita Leonardo da Vinci e Michelangelo, anche se omosessuale, nel senso proprio del termine, era solo il primo, in quanto Michelangelo ha amato più di una donna. Non c’è un giudizio negativo tout court da parte di Vannacci, c’è sicuramente una manifesta insofferenza di fronte alla sovrapposizione degli stili di vita, al bombardamento mediatico che si sta verificando in questi tempi sulle tematiche arcobaleno, anche nei confronti dei bambini, i quali possono uscire in strada e imbattersi in un gay pride dove l’orgoglio gay è sostituito da scene blasfeme, o sessualmente allusive, da maschere di lattice, museruole e guinzagli. Io non credo che ci sia omofobia, in questo; né credo ce ne sia stata nell’affrontare il tema delle adozioni o dell’utero in affitto, sebbene l’idea della famiglia gay “non selezionata come tale dalla Natura” crei confusione, poiché anche una coppia senza figli costituisce un nucleo familiare, a prescindere dalla capacità procreativa. Sul punto della filiazione all’interno di una coppia gay, invece, non voglio citare il suo scetticismo, ma quello di un famoso omosessuale, magnifico artista, come Cristiano Malgioglio, il quale ha dichiarato di preferire la famiglia tradizionale, composta da un padre e una madre, perché la parola più bella che un bambino possa pronunciare è «Mamma». Una simile convinzione rende Malgioglio omofobo?
E, sempre in tema di famiglia, Vannacci ha affrontato con temerarietà anche un altro tema, quello della donna che lavora rispetto alla donna madre: «Altra incredibile bordata proviene dal movimento femminista che si batte per l’emancipazione della donna. Oltre a promuovere istituzioni come il divorzio e l’aborto al suon dello slogan “tremate, tremate, le streghe son tornate” si oppone alla figura femminile intesa come madre. Le moderne fattucchiere sostengono che solo il lavoro ed il guadagno possono liberare le fanciulle dal padre padrone e dal marito che le schiavizza condannandole ad una sottomessa, antiquata, involuta ed esecrabile vita domestica. […] La cosiddetta emancipazione femminile ed il concetto del “lavoro ad ogni costo! Limitano se non addirittura impediscono il regolare svolgimento della funzione educativa» (p. 187).
Il problema che Vannacci si pone sembra riguardi due diversi aspetti: una tendenza delle donne contemporanee ad allontanare il concetto di maternità e, nel caso diventino madri, l’impossibilità di seguire i figli adeguatamente a causa del lavoro. Il calo demografico parla da sé, ma non credo che siano solo le donne a non volere figli. Presumibilmente conta anche la crisi economica schiacciante, che spesso costringe ad orari lavorativi particolarmente intensi. Quanto al lavoro come allontanamento della donna dalla famiglia ci sarebbe molto da dire. L’emancipazione femminile è legata innegabilmente, e per una parte essenziale, al lavoro. Le donne non potevano neppure pensare di lavorare, quindi aver conquistato la possibilità di farlo, affrancandosi da condizioni spesso disagiate, è un passo evolutivo che deve essere mantenuto saldo e non può in alcun modo essere messo in discussione. Ciò non toglie che non debba essere neppure dimenticato il ruolo comunque fondamentale che hanno avuto altre donne, la cui scelta è stata quella di fare solo le madri. Questo non significa che la donna che lavora non sia una buona madre, né significa che sbaglia chi sceglie di lasciare il lavoro per stare in casa con i figli. Io sono figlia di una donna che lavorava prima di avere me e mio fratello, poi ha smesso per crescerci e, quando eravamo grandi, è tornata a lavorare. La sua scelta è stata sbagliata? Anche qui non può non valere la possibilità di pensare liberamente quello che si pensa e di essere liberamente ciò che si vuole essere senza criminalizzazioni di sorta.
Alla luce di questo breve excursus, ciò che emerge dalla lettura del libro è che parlare di mondo al contrario è comunque utile, anche se, nel farlo, sono stati usati, a volte, toni un po’ forti e dirompenti che celano giudizi anche opinabili. È utile perché una parte di mondo sottosopra esiste e bisogna imparare a vederla per ciò che è, senza nasconderci dietro un dito.
Benedetto Croce fondò la rivista “La Critica” per dare spazio ad un pensiero sempre attento, giudicante, capace di muoversi tra accadimenti e ideologie, capace di contestare anche l’autorità. La critica è l’attività filosofica per eccellenza, che impedisce di parlare per stereotipi, di condannare senza processo, di seguire un pensiero unico. Ultimamente, invece, il pensiero unico sta prendendo sempre più piede e lo dimostra il fatto che si grida alla falsità nei confronti di chiunque osi affrontare certi argomenti in modo dissonante, seppur con il sostegno di prove storiche o scientifiche, a seconda dei casi. Per il pensiero unico il mondo rovesciato non esiste. E, invece, va riattivata la capacità di discutere, di contestare, di vedere il dritto ma anche il rovescio. Pillola rossa o pillola blu, direbbe il Morpheus di Matrix. E, dunque, ben venga il libro del Generale Vannacci, che mette sul piatto varie pietanze. Lo fa rincorrendosi nelle parole, a volte dicendo troppo, altre volte dicendo troppo poco, a volte esprimendo giudizi non condivisibili, altre volte parlando sulla base di dati statistici e scientifici. Sicuramente si è infilato in un ginepraio di argomenti che, sino ad oggi, ha messo in crisi fior fiore di scienziati e filosofi ognuno per il proprio settore. Si può non essere d’accordo con lui, ma non si può evitare di riflettere su più di un punto, leggendolo. E, soprattutto, il senso di legalità suggerisce di non invocare censure, come, invece, si è letto da più parti in questi giorni.