The Collector: la recensione

Lo scorso 23 ottobre è iniziato, presso il Teatro Belli di Roma, TREND – Nuove frontiere della scena britannica, alla sua XIX edizione. Il festival, a cura di Rodolfo di Giammarco, vede protagonista l’esplorazione della nuova drammaturgia britannica. Dal 10 al 13 dicembre il pubblico ha potuto vedere in streaming The Collector di Mark Healy, dal romanzo di John Fowles, per la traduzione di  Giorgio Lupano, in scena in prima persona con Beatrice Arnera. Lo spettacolo, diretto da Francesco Bonomo che si è occupato anche dell’impianto scenico, è una produzione di a.ArtistiAssociati

Frederick Clegg (Lupano) è un uomo schivo con la passione dell’entomologia: il suo unico interesse è catturare e collezionare farfalle. Ha da qualche tempo notato Miranda (Arnera), una giovane e affascinante studentessa d’arte, una ragazza vitale e luminosa, in netta contrapposizione col suo carceriere, anonimo e ombroso. Dopo una fortuita vincita alla lotteria che lo rende ricchissimo, l’uomo decide di comprare una vecchia casa isolata, per poi riadattare il seminterrato ad appartamento e rapire la ragazza; è convinto che stando da sola con lui imparerà a conoscerlo e quindi ad amarlo.

Il tema della storia è presto evidente, si parla di violenza sulle donne e di conflitto di genere, due tematiche estremamente attuali. 

Per l’effetto che la visione suscita, lo spettacolo risulta claustrofobico e stressante agli occhi dello spettatore. Fin dall’inizio non desideriamo altro che la clausura di Miranda finisca. La scena si divide in due ambienti separati da una sorta di parete formata da corde tese che vengono sciolte a vista per calare gli elementi di scena dall’alto. Si tratta perlopiù di vestiti che Miranda indosserà a seconda dell’ambientazione creata dal suo carceriere per lei, come se fosse una bambola da vestire o forse sarebbe più corretto dire una farfalla. 

Lo spettacolo consente al pubblico di notare diversi riferimenti cinematografici; uno di questi è relativo a Il silenzio degli innocentidi Jonathan Demme del 1991. Anche in quel caso, come è noto, era presente la farfalla, simbolo di metamorfosi, rappresentata però, in entrambi i film, come simbolo di morte più che di cambiamento. Un altro riferimento a cui è facile pensare è il più recente Room diretto da Lenny Abrahamson del 2015.

La particolarità del testo risiede nel fatto che la storia è narrata dal punto di vista del carnefice, in questo caso Frederick. L’introduzione degli eventi, esposta proprio dal protagonista che rompe la quarta parete e si rivolge al pubblico, si sofferma su questo punto: “di ogni storia c’è sempre più di una versione”, e il protagonista vuole raccontarci la sua. 

Il testo è scritto in modo tale da non farci provare alcuna empatia o comprensione per il personaggio. Sembra piuttosto un’analisi asettica di quanto è accaduto, più Frederick spiega e più siamo portati a odiarlo e vorremmo vederlo finito. 

Quella degli attori si potrebbe definire un’interpretazione accademica, nessuno dei due prevale sull’altro o si distingue in modo particolare. Nei momenti di tensione più alta, segnati dalla forte drammaticità del rapporto tra vittima e carnefice, Lupano e Arnera si lasciano andare a isterismi forse superflui che fanno diventare la situazione grottesca. Nel complesso però hanno saputo calibrare le differenze tra i due personaggi, camaleontica lei, chiuso e asettico lui.

Vedere questo spettacolo in questo particolare periodo storico è utile per guardarci come al microscopio e vedere quanto possa diventare satura di tensioni, equivoci e cose non dette la vita domestica, costretta da certe limitazioni. Soprattutto possiamo notare quanto siano chiare certe dinamiche patriarcali e oppressive che purtroppo ancora tante donne subiscono e a causa delle quali si sentono imprigionate. Risulta così impossibile non pensare alle violenze domestiche e vedere in questi due personaggi degli archetipi di figure del quotidiano e di situazioni che si sono amplificate con l’arrivo della pandemia.