Spasmi melodrammatici di una lenta agonia

L’attore balla per noi il ballo tragico dello sfruttamento

di Marco Buzzi Maresca

Il nuovo testo di Antonio Mocciola, Gleba, che ha esordito per la regia di Giorgia Filanti (Roma, Cappella Orsini, 18.1.2024), ben si attaglia alla rassegna “La scena capovolta” ospitata da Roberto Lucifero, ed organizzata da Marco Medellin, dedicata al politicamente scorretto ed alla libertà di espressione. Questo se per politicamente scorretto si intende semplicemente avere un’idea politica che vada a disturbare il silenzio dell’ordine costituito. Il titolo allude infatti – col termine medievale – al sussistere spesso silenziato di nuove schiavitù all’interno di molte cosiddette democrazie avanzate. E’ il caso qui del caporalato, ormai una piaga nazionale, ma certo diffuso più al sud, e vivacemente denunciato nel libro di Alessandro Leogrande, da cui il testo trae spunto. Un caporalato tollerato in barba a tutte le leggi, con la connivenza locale delle stesse forze dell’ordine, ed il silenzio interessato della popolazione locale. Mocciola non è nuovo ad operazioni del genere, di denuncia sotto forma di giornalismo artistico, con una vena del resto spiccatamente meridionalista che gli viene dalle sue origini. Così un anno fa si era occupato della antica piaga del lavoro minorile nelle zolfare, in ‘Nel ventre’.

In particolare i due testi, oltre ad avere in comune la denuncia di una situazione di sfruttamento, hanno in comune però una debolezza strutturale, che richiede un forte sforzo di regia ed interpretazione: sono monologhi di racconto del protagonista stesso, ma non si sa bene a chi e quando, specie in questo caso, dove chiaramente la conclusione pare essere la morte del protagonista stesso. Monologhi racconto che tuttavia al proprio interno poi animano scontri con altre persone, animate ed incarnate come voci alterne dallo stesso protagonista.

Altro tratto in comune che hanno molti testi di Mocciola – talvolta un po’ ripetitivo, ma sempre vivamente articolato – è di incrociare le dinamiche dello sfruttamento con quelle di un patriarcato primordiale, da padre-padrone, e di conseguenza con un intrinseco codice dell’umiliazione che spesso sfocia in dinamiche sado masochistiche, le stesse che l’autore ama analizzare e sviscerare nei rapporti personali e d’amore. Il tratto in comune è la violenza del potere, che si svolga nell’intimità o nel sociale, una violenza che è spersonalizzazione ed appropriazione. Di qui anche la metafora, anche questa forse un po’ abusata

(ma Mocciola è un autore ‘settecentesco’, dalla produzione infinita e veloce, per variazioni e riprese), la metafora del nudo. Mocciola ama mettere in scena il nudo, a metafora della nudità indifesa degli umiliati ed offesi. Quindi i personaggi suoi sono sì umiliati ed offesi (come in verga e Dostoevskij), ma anche torvamente e materialmente – modernamente – denudati, torturati e sodomizzati. C’è del metodo, verrebbe da dire amleticamente, in questa perversione rozza del potere.

La favola comunque, nella sua lenta ed inesorabile – melodrammatica – discesa agli inferi, è semplice, crudele, e straziantemente patetica, pur nel sostanziale realismo.

Due figli di un abbrutito ed insensibile padre padrone romano vanno a perdersi uno dopo l’altro in Puglia, nelle spire del caporalato agricolo, unici italiani in una massa di stranieri dove alla prima ondata africana, troppo ribelle, si è sostituita quella della manodopera slava, più malleabile. Il primo a partire è il minore, forse sedicenne, decisamente per ribellione al padre, senza sapere di andare a gettarsi nelle braccia di un ben peggiore padre padrone. Lascia casa per un non si sa dove, e parte nudo (qui decisamente un po’ irrealistico). Il fratello segue a ruota. Non ribelle, solo emotivo. Chiede tremante il permesso al padre per un periodo di lavoro al sud, ma in realtà parte alla ricerca del fratellino. E si dà un falso nome, si finge rumeno. La realtà che trova è tuttavia al di là di ogni sua previsione, e ne rimane imprigionato. Il prezzo del cibo, e delle anfetamine per resistere alla fatica – vendute dai loro stessi sfruttatori –  coprono tutta la misera paga. Non hanno dunque nulla per fuggire. Lui infine, per una fuga, perde i pantaloni, strappati dai cani. E la sua nudità prosegue fino a che, per una sigaretta ed una allusione alla protezione da morte sicura, si lascia sodomizzare dal caporale, un polacco. Per un attimo è talmente prostrato che, vedendolo addormentato post coitum ha un momento di attrazione vittima carnefice. Ma poi gli vede al collo la collanina del fratello, di cui dunque è l’assassino. Vorrebbe ucciderlo, ma è troppo pericoloso, e fugge, in una fuga disperata ed allucinata. Vede all’alba un casolare. Sembra quello dell’infanzia. Ma gli sparano, e nel morire immagina di vedere il fratello che lo accoglie.

Lasciando perdere l’aporia di fondo di un racconto non si sa rivolto a chi, e che nemmeno può essere memoria, l’attore – ben diretto dalla regista – inanella con ardore una pluralità di toni, anche se forse su un registro un po’ enfatico. Lo spazio è ristretto e nudo. Solo a terra, dove lui inizialmente giace, una cassetta di pomodori. Nella prima parte, solo in piedi, fermo a guardare lontano, raccontando, prevale una certa staticità. Poi tuttavia comincia il susseguirsi di stati d’animo e peripezie, e i toni e la maschera facciale si scaldano. E il corpo in movimento aiuta. Cammina in tondo, si abbatte, si rialza come un Cristo a braccia levate (spaventapasseri per punizione), si tocca tremante la faccia quando sgomento si vede smagrito riflesso in una pozzanghera.

La stessa ristrettezza dello spazio scenico del resto aiuta a costringere i movimenti in un senso di prigionia, un senso di prigionia a sua volta acutizzato – nelle scene di transizione, al buio – dai movimenti veloci (stroboscopici) del piccolo campo di luce mosso con la torcia dalla regista. Si crea così un sincopato tragico, a cui collaborano le poche musiche, ben scelte, d’intonazione ossessivo ripetitiva, come un sottofondo persecutorio, torturante.

Nel complesso, una operazione interessante, in nudità di strumenti e minimalismo creativo. 

Ed il pubblico risponde con calore.

Gleba  di Antonio Mocciola  – Regia Giorgia Filanti  – con Silvio Pennini  – make up Cristina Attanasio  – luci Diego Pirillo  -Aiuto regia Margherita Dongu – Cappella Orsini 18 gennaio 2024

Foto di copertina: Silvio Pennini