Al Teatro di Villa Lazzaroni la storia di due sorelle, anche e soprattutto una storia d’amore
Nel tempo liquido che precede il risveglio due giovani donne dormono, distese; la prima tende la mano, nella penombra tocca i capelli dell’altra.
Inizia in medias res la storia di due sorelle, colte ora nell’istante di più profonda quotidianità, di più profonda tenerezza, una storia vera, quella di Io e mia sorella di Sabrina Biagioli, tornato a Roma al Teatro di Villa Lazzaroni lo scorso 16 febbraio per la regia di Gina Merulla.
Per trovare, scavalcare la soglia
Esiste nell’atto autobiografico- sostiene Rossana Campo in “Scrivere è amare di nuovo” (Perrone Editore) – la capacità stra-ordinaria di produrre senso, di generare un significato o meglio di strappare quello stesso significato dal luogo sotterraneo dove altrimenti continuerebbe ad esistere. Concedere a quel significato una nuova genesi, una nuova nascita, un’epifania travagliata quanto necessaria per un dialogo privo di interferenze con la nostra stessa esistenza.
Ebbene, si assiste in questa storia-dove il racconto si fonde con la vita e la vita con il racconto- a ciò che dell’atto autobiografico rappresenta il passo ulteriore, un’indagine tanto ardita dentro la vita e dentro al corpo da permettere ai personaggi di interpretare se stessi; due sorelle – Viola e Sabrina- che si raccontano; scavano nel proprio trauma, nella loro diversità, nella luce che in ciò si nasconde e si svela, per restituircelo.
Secondo te normale è un aggettivo strano?
Vediamo due donne che ballano, perché a Viola piace ballare, perché la danza sul palco è anche la danza della vita, dove la gioia incontra la fatica, la fatica abbraccia l’ironia, dove il movimento- ora più lento, ora più lieve- racconta i meccanismi dell’amore, si fa spunto e innesto per la narrazione.
Prima dell’inizio, l’interruzione, quella della voce fuori campo che riempie la sala, che analitica elenca le caratteristiche della trisomia 21: era il 22 agosto 1985, quando Viola è nata con gli occhi a mandorla e con un cromosoma in più, ma il dizionario non basta e- la storia ne è testimonianza- non fu mai una bambina come le altre.
Sabrina invece, lei è nata a novembre, nel mese dei morti e l’essere figlia di mezzo, non la prima, non l’ultima ha scombinato tutti i suoi piani, eppure l’iniziale spaesamento che era stata per lei prima risposta a una situazione inattesa, l’ha condotta ad un amore più grande e più forte della vita stessa.
E allora interroga sua sorella sulla stranezza della normalità, lessema bizzarro, stra-usato del quale forse nessuno conosce il confine, nessuno lo conosce perché forse non esiste e forse allora tanto appare più ovvio che se c’è una cosa più brutta dell’essere diversi, è l’essere normali.
Nell’ironia, che schietta e decisa concorre con l’autenticità nel porsi come cifra di lettura della scena, la storia va avanti, dall’infanzia ad oggi, dove le premure che hanno abitato le tappe dell’esistenza, quel reciproco prendersi cura che inizialmente appariva così differente, diviene luogo raro e prezioso, dove gli altri, i normali, troveranno difficoltà ad accedere.
Quando esattamente ti ho perso
La vita dell’ora è costellata da amici immaginari, da cene immaginarie, da rituali segreti che ai più suonerebbero stravaganti ma che giorno dopo giorno l’amore suggerisce.
Se la direttiva che guida ognuno di quegli istanti e si fa per loro da collante, è la condivisione, esistono momenti altri in cui Sabrina è sola e sola dialoga con la sua vita, una vita che forse ha perduto, che a volte vorrebbe ritrovare, che forse c’è ancora ma ha mutato forma.
Seduta sul bordo sinistro della scena, la sorella maggiore si ferma ed esplora il suo silenzio, un silenzio affollato dove ogni tanto sembra affacciarsi un’insolita forma di nostalgia: quando di preciso ha perso la sua vita? E cosa quella vita avrebbe voluto per lei?
Ma c’è altro nel fondale, qualcosa di più preciso e sotterraneo, qualcosa di inevitabile che non coincide solamente con l’impossibilità ma esiste in primo luogo nella scelta: a volte l’amore è più forte di me, non posso e non voglio farne a meno.