Correva il Novecento. Nelle viscere della terra, nel cuore della Sicilia, centinaia di “carusi” diventarono uomini. A contatto con la materia, al buio, spogliati di ogni indumento, della dignità. Alcuni, tanti di loro pagarono con la vita la vana illusione di un lavoro che non poteva restituire in cambio l’indipendenza. Ma solo crudeltà, umiliazione, violenza. E, a volte, appunto, la morte.
“Nel ventre. Voci dal centro della terra”, monologo scritto con acume da Antonio Mocciola e portato in scena dal 15 al 18 dicembre al Teatrosophia di Roma, affronta il tema scottante delle miniere di zolfo e delle riprovevoli condizioni di lavoro a cui vennero costretti, nel silenzio generale e per decenni, intere generazioni di indigenti e “figli di nessuno”. Orfani come il protagonista Sebastiano, interpretato con energia e trasporto dal giovane Salvo Lupo. Siciliano pure lui e abile a riproporre nella “lingua” natìa una serie di passaggi significativi dello sviluppo. Il resto lo fa il suo corpo, nudo, privo di difese e di filtri rispetto all’onda di emozioni che travolge il suo animo. Ha il fuoco dentro, Lupo, è agile e forte. E’ un giovane adolescente, da grande vuol diventare insegnante. Si innamora per la prima volta, scopre il piacere della carne. Vive l’esperienza in miniera e con i colleghi come un gioco. Ma presto si scotta con le condizioni di vita, indicibili, e con i cattivi della favola. Con il marcio degli adulti, la perfidia, le cattive intenzioni. Il lavoro massacrante, senza orari, per due spicci. E’ costretto, in poco tempo, a farsi la corazza: diventa uomo. Sebastiano subisce percosse, viene umiliato, perde il sorriso, ma sopravvive. Nudo, mal nutrito e sporco esce dal ventre cupo delle profondità e rivede la luce della superficie. Può riprendere in mano la sua vita, le sue aspirazioni. Come lui, il suo alter ego Lupo, che finisce sfinito, svuotato, ma fiero.
La regia, a cura di Marco Medelin, costruisce le scene sui movimenti di Lupo – geniale la trovata del corpo a descrivere le lettere dell’alfabeto greco – e detta i tempi della narrazione con un sapiente utilizzo delle luci. Scenografia descritta solo da 2 sedie. Ne deriva uno svolgimento fluido e carico di pathos.
Il dito viene puntato, tra le righe, contro i responsabili di un inaccettabile scempio sociale, i rozzi capomastri del Nisseno. E, di riflesso, contro l’assenza delle istituzioni, che solo nel 1987 decretarono la chiusura delle “zolfare” in Trinacria. Uno sfondo politico e di lotta per ricordare che la memoria rimane. Con essa la sofferenza di tante vite segnate, altre interrotte in tenera età. C’è anche il tema del riscatto, o meglio della salvezza, che per i giovani, i carusi, può arrivare solo da un democratico accesso allo studio e alla cultura.