“Mathilde” e i sentimenti mancati

Sul palcoscenico romano del teatro Lo Spazio, deliziosa oasi d’arte e spettacolo nel cuore del quartiere S. Giovanni, è in scena Mathilde. Cronaca di uno scandalo di Véronique Olmi, con due grandi protagonisti del teatro contemporaneo: Maria Letizia Gorga e Maximilian Nisi, musiche originali del Maestro Stefano De Meo, regia di Daniele Falleri.

La storia, che si concretizza in un dialogo di coppia reso infuocato da sentimenti contrastanti e scandalosi e accompagnato della mera idea di una terza persona, non racconta nulla di nuovo, ma la resa scenica è eccezionale grazie alla bravura dei protagonisti; tutti anche quelli dietro le quinte, ovviamente. È un bel concerto di bravure questa messa in scena. Non racconta nulla di nuovo perché abbiamo visto questo stesso scandalo in molte occasioni. Nabokov è tra i primi ad averlo esplorato, sotto il profilo letterario. L’abbiamo visto anche nelle pieghe dei fatti di cronaca, come dimostra un famoso arresto nella Francia della metà del Novecento, che portò l’intellighenzia di allora  – Jean-Paul Sartre, Simone de Beauvoir, Roland Barthes ed altri –  a schierarsi, raccogliendo firme per la liberazione dei condannati e per la liberalizzazione della condotta che li aveva portati alla condanna. E non è un caso, forse, che un testo francese come Mathilde preveda un piccolo “cammeo” in cui si fa riferimento proprio a certe firme raccolte dall’intellighenzia in favore della protagonista.

Peraltro, in questo caso, lo scandalo sfiora a malapena il contesto. Sì, esiste. È un dato di fatto. Ma non entra veramente nella storia narrata, è invisibile sotto tanti punti di vista. Le cose accadono a prescindere dai particolari che riguardano il “terzo assente”. Trovo che il dialogo e il senso delle cose non sarebbero cambiati se la figura trasparente, l’ologramma frapposto tra i protagonisti fosse stato altro da quello che è, seppur portatore di uno scandalo, di un comportamento illecito. Ce ne sono molti, in fondo; il codice penale è ricco di norme, tutte potenzialmente trasgredibili. Nulla, ma proprio nulla focalizza l’attenzione su di lui in quanto “lui”, come invece avviene in Nabokov. È una figura umbratile che esiste solo in riferimento alla dinamica di coppia. Il dialogo è tutto un «Io, io, io … Tu, tu, tu …». Lui è solo una causa occasionale. Nel racconto della passione il picco di trasgressione è quasi asettico, non la impregna, non la cambia. Sarebbe quella anche con un altro soggetto.

Non è questa la sede per sviscerare quale sia la condotta che richiede tanta attenzione. È uno dei cardini della storia, sebbene compaia quasi subito. Più interessante indagare le dinamiche di coppia che si dipanano nel corso della rappresentazione, nelle quali non ritrovo affatto l’esplosione di sentimenti contrastanti che ci si aspetterebbe. Tutt’altro. La pièce mi dà l’idea di non avere due protagonisti, Mathilde e Pierre, ma uno solo, la Coppia. È un dialogo ma anche un monologo a due voci. Come in Chi ha paura di Virginia Woolf, non parlano i coniugi, ma il loro rapporto; un rapporto fondato su due personalità complementari nel gioco della vita. Entrambi hanno un ruolo preciso, nella loro dinamica relazionale.

Mathilde è una donna nevrotica ed egocentrica, assolutamente impermeabile alle mancanze di Pierre, mancanze che sottolinea solo per il gusto di generare sensi di colpa; impersona il lato dominante della coppia, una sorta di “mistress” senza tuta di lattice e senza una frusta se non le sue parole, dura come i sassi che ama più delle foto ricordo, ma anche seducente come la Ann Bancroft de Il Laureato nella scena in cui si sfila le calze seduta sul letto. Anzi, c’è un punto, nel testo, in cui si fa riferimento proprio a qualcosa di analogo.

Pierre, invece, è un tipico soggetto passivo-aggressivo con marcati tratti di personalità dipendente, il quale manipola Mathilde con il proprio malessere, tenendola legata a sé. Vivono una segreta perversione che sfiora la storia come un particolare da cogliere tra le righe: la fantasia dell’uno, che implica una tolleranza esasperata, un po’ come quella di Jules nel romanzo di Roché e nel film di Truffaut, genera ispirazione all’altra e, nonostante certi comportamenti producano frattura, la frattura non arriva fino in fondo, non sfocia in una tragedia vera e propria, come, ad esempio, quella reale dei marchesi Casati-Stampa, i quali, con un vissuto sotto certi aspetti simile a quello dei protagonisti di quest’opera teatrale, nel 1970 riempirono i rotocalchi italiani con un clamoroso caso di omicidio-suicidio. Forse, rispetto ad un simile dramma, i protagonisti di Mathilde trovano mezzi alternativi e ciò che è stato sottratto al gioco di coppia non viene mondato dalla morte ma rientra nella storia ex post attraverso un libro. Mathilde è una scrittrice, del resto. Che scriva! le urla Pierre. Scriva tutto, scriva i particolari, scriva quello che ha fatto. Una cura per la sua ossessione? No. Pierre lo afferma, ma mente. È un modo per far entrare dalla finestra quel che è uscito dalla porta, per rendere Pierre partecipe, perché solo così può realizzarsi il loro incastro relazionale. Tutto ciò che lei scrive, anche i diari, gli appunti che lui legge di nascosto, rispondono alle stesse istanze.

Nella prima scena, quando Pierre rivede Mathilde dopo un forzato allontanamento, la scopre “più alta”. Ai suoi occhi, dunque, quella condotta, che altrove ha prodotto tragedia, l’ha migliorata, l’ha resa più imponente, anche se successive accuse potrebbero far credere il contrario. La ama ancora? Forse. Lo iato tra parole e fatti mette in dubbio tutto, però. «Ti amo quando hai freddo e fuori ci sono trenta gradi; ti amo quando ci metti un’ora a ordinare un sandwich; amo la ruga che ti viene qui quando mi guardi come se fossi pazzo …» dice Billy Crystal in una delle più belle dichiarazioni d’amore cinematografiche, quella di Harry ti presento Sally. Qui ascoltiamo qualcosa di simile: «Ti amo quando insulti il computer …» ma ci crediamo un po’ meno, perché è il contesto che lo nega, perché, a volte, l’amore è solo una maschera della dipendenza.

La storia è tutta qui. Un confronto che è un percorso, in realtà, e si conserva costante e coerente con l’incastro reciproco di ruoli nella relazione. Non c’è pentimento, non c’è perdono. C’è la dinamica dominante-dominato, che è identica all’inizio della storia e durante lo svolgimento della stessa, dove ognuno dei due è l’uno e l’altro: Mathilde domina, ma, in fondo, è tornata lì, in quella casa che avrebbe potuto evitare, di fronte a quell’uomo che avrebbe potuto ignorare, in qualche modo dominata; Pierre è dominato, ma attraverso i suoi malesseri, le sue medicine, i suoi pazienti in fuga domina Mathilde, la tiene lì anche oltre il suo desiderio di andarsene.

Non facile portare in scena un testo che potrebbe essere nulla più di un’occhiata segreta attraverso la finestra del vicino, un orecchio allungato sulla conversazione di due estranei al tavolo di un bar, uno squarcio di qualcosa che ha un inizio e una fine, sebbene li abbia altrove. È una storia senza storia. Eppure la magia del teatro, soprattutto se può avvalersi di certi attori, di certa regia, di certa musica riesce dove la scrittura non arriva.

«Ogni creatura d’arte deve avere il suo dramma» afferma Pirandello. «Altrimenti non è un personaggio».

E sia la Gorga, sia Nisi lo sanno bene. Potente la loro interpretazione. Davvero potente. Entrambi sanno come muoversi in scena, come sottolineare l’ovvio rendendolo opinabile; sanno gestire gli spazi del dialogo e dell’alterco, trasformando le parole in angoli fisici, reali, concreti, visibili.

Sanno muovere il desiderio di ascoltare. Credibilità e intensità li accompagnano in questo viaggio; e il ritmo serrato delle loro parole, serrato persino nelle pause, cattura il pubblico, che ho visto attento e coinvolto.

Non abbassano mai la soglia di attenzione di chi li guarda, di chi li ascolta. Hanno trasformato un mero alterco di coppia in itinere in un dramma interiore nitido ed espressivo.

In una scena ricca di scatole e scatoloni hanno impilato i tanti sentimenti e risentimenti che li uniscono, mischiandoli costantemente, passandoli da una scatola all’altra: anche l’anima dei protagonisti è in fase di trasloco, è nel pieno di una rivoluzione psicologica che è quasi fisica.

La musica di De Meo, come sempre, è capace di parlare, di ritagliarsi un ruolo di coprotagonista. In alcuni momenti mi ha fatto tornare alla mente un bel film di Coppola, Un sogno lungo un giorno, nel quale i personaggi si muovono nella loro finzione quotidiana, celando per quieto vivere i propri veri pensieri, e, in sottofondo, le canzoni originali di Tom Waits esprimono l’inespresso, raccontano come stanno veramente le cose. Ecco, la musica di De Meo compie questo stesso percorso e offre spiragli di apertura sul non detto, sul non confessato, sul segreto, accompagnati da una mimica esplicativa, dal gesto che si fa parola.

Non c’è sipario. Non ci sono antefatti. Il pubblico entra immediatamente nella scena insieme a Pierre, che appare di spalle: indovinatissima scelta, molto cinematografica. Ricordo che quando vidi per la prima volta Il Padrino rimasi sopraffatta dalla ripresa iniziale che trova Brando di spalle con la sua mano che recita. Mi è piaciuta molto la scelta di una simile apertura, dunque. Nisi non entra in scena, ma in una stanza, con un pubblico che inizia da subito ad ascoltare, ad occhieggiare, ad infilarsi, non visto, nella vita sua e di sua moglie. Quante volte abbiamo esclamato: «Ah, se potessi essere una mosca per vedere questo o sentire quest’altro!». Ecco, stasera il desiderio si è avverato: il pubblico è una mosca che penetra tra mura domestiche aliene da sé e sbircia la vita degli altri.

Nisi è particolarmente bravo a spostare l’attenzione del pubblico dalla maschera esteriore all’intima essenza. Non è mai ridondante, mai roboante. Il suo è un cesello pulito, essenziale e pur capace di raggiungere profondità incredibili. Conosce i gesti emozionali. È uno spettrometro di massa per passioni: attraverso di lui il pubblico riesce a vedere gli isotopi dei pensieri, dei sentimenti e degli umori; persino l’ambiguità viene chiarita pur restando tale, almeno per quel tanto che basta ad irretire. Spacca i turbamenti di un animo complesso in tante parti, esaltandone gustosamente il significato, come fanno le molecole d’acqua con il whisky.

Anche la Gorga interpreta perfettamente l’anima che deve nutrirsi dell’anima altrui per sentirsi viva. La vita è faticosa. Ci si abitua a tutto, anche al dolore. E il dolore, a volte, rende vivi. Anche la passione rende vivi. In alcuni casi dolore e passione si fanno compagnia. Ma di quale passione parliamo, qui? Esaltazione dei sensi? Spregiudicatezza? Voglia di trasgredire? Abbandono? O rimpianto, mestizia, incapacità di vivere? La Mathilde della Gorga possiede una logica ricca di contraddizioni ed è poesia il suo strano equilibrio privo di piani di riferimento, il suo muro di mattoni incapaci di solidità. È adagiata sulle cuspidi della vita, come Eta Beta. E fa poesia perché riesce a restare in piedi, nonostante tutto. Combina guai, ma resta in piedi.

Sarà il nome?

Harry Belafonte cantava di una Matilda che lo aveva derubato di tutto, persino del gatto; che gli aveva strappato i sogni ed era fuggita verso altre felicità. La Mathilde di questa pièce è decisamente più ferma. Non scappa, sebbene non si possa, certo, dire che non sottragga qualcosa di prezioso a Pierre. Entrambi i personaggi si battono con una veemenza che la Gorga e Nisi sanno esternare con maestria, drammatici e misurati al contempo, attori che conoscono bene il senso della scena. Sì, Mathilde e Pierre si battono, dimostrando di sapere bene che battersi vale più di qualsiasi vittoria. Battersi è la strada che si percorre; la vittoria è la fine di quella strada. Forse è per questo che si ha l’impressione che nessuno vinca e nessuno perda, in questa pièce. Mathilde e Pierre non sono alla fine di una strada, ma nel bel mezzo di essa; sono nel loro viale alberato, con squarci di sole alternati a tuoni che preannunciano temporali, con gocce di pioggia pesanti come massi, e fango tra i piedi, e brividi di freddo, e schiarite che sembrano isole deserte.

«Non occorre essere camera o casa» scrive Emily Dickinson «per essere abitati dallo spettro. Ci sono nel cervello corridoi che superano gli spazi materiali».

Ebbene, questa pièce, così come portata in scena da Maria Letizia Gorga e Maximilian Nisi, è un bel viaggio tra gli spettri interiori. E merita di essere vista.

Mathilda – Cronaca di uno scandalo di Véronique Olmi – traduzione di Alessandra Serra – Regia di Daniele Falleri – Con Maria Letizia Gorga e Maximilian Nisi – Musiche originali: Stefano De Meo – Movimenti scenici: Valentina Calandrello – Allestimento scenico: Pasquale Bertucci – Luci e fonica: Alessandro Iannattone – Produzione: Centro Mediterraneo delle Arti – Teatro lo Spazio 5/8 ottobre

Foto di Giancarlo Fiori