Giochi senza scampo nella nuova drammaturgia firmata da Valentina Esposito in scena al Teatro Basilica
di Marco Buzzi Maresca
Corse di cavalli. Cavalli da macello. Già con lo spettacolo Destinazione non umana (Teatro India, 2022) ero rimasto colpito dalla travolgente energia vitale della Compagnia Fort Apache Cinema Teatro (fondata dalla regista e drammaturga Valentina Esposito nel 2014) unica compagnia stabile in Italia formata da attori ex detenuti e detenuti in misura alternativa, oggi professionisti di cinema e palcoscenico. Lì la corsa dei cavalli era metafora del dolente circo della morte, sia della società capitalistica che dell’esistenza in generale, con tragici controcanti d’amore.
Qui è la famiglia ad essere circo della morte, inferno relazionale e sociale, tra riti collettivi e derive individuali, anche se una di loro (la coscienza ironica e vitale del gruppo) – prima dell’epilogo tragico elegiaco – sentenzierà, con fatalismo umoristico, “Se non ci fossero le famiglie, dove nasceresti ? Tutti dispersi !”
In realtà tuttavia questo spettacolo (già in scena all’India nel 2019), precede l’altro, e quindi si può ipotizzare ne sia l’incunabolo. Qui infatti – lavorando sui vissuti famigliari dei detenuti – la drammaturga monta una famiglia, disegnando le radici affettive del disagio. Nell’altro si ingigantiva la metafora della società come istituzione totale, dal massacro della competizione alla deriva carceraria e/o psichiatrica.
Ma in che cosa la famiglia è incunabolo del sociale, producendolo e riproducendolo ? Qui direi in due direzioni. Come macchina di ascesa sociale da un lato, e come distorsore degli affetti in potere patriarcale e competizione.
Aldilà tuttavia di queste considerazioni, interessante è il montaggio narrativo e scenico, che rende appunto questa famiglia la fantasmagoria di un circo della morte, una persecutoria teoria di fantasmi che non vogliono morire. Questo del resto è il dramma delle famiglie, il lascito di fantasmi che incide in noi, incatenandoci a prigionia psichica. La scena è quella di un eterno ritorno circolare della memoria, e si apre e chiude con il dolore polemico di uno dei figli della terza generazione, mentre per tutto lo spettacolo si dipana a onde, con un flashback trigenerazionale, la storia della famiglia ed il quadro della genesi delle ferite che non passano. Si comincia con la migrazione dei nonni calabri, per cercar fortuna a Roma, ma tutto confluisce – con la presenza congiunta di vivi e morti – nel matrimonio di Viola, banco di prova corale di tutti i rancori le invidie le aspettative. Viola ha voluto che il fratello, Alessandro, da sempre in rottura col padre, venisse. Spera la pace tra lui ed il padre moribondo, che d’altra parte non supera né questo né il senso di frustrata invidia per il fratello che ha fatto fortuna in America. Tutto cresce tra va e vieni di danze, pettegolezzi, allegria conviviale, ed improvvise lacerazioni, e crescenti aggressività e recriminazioni.
Tuttavia, tra le righe, lentamente emergendo, fino alla rivelazione finale c’è l’evento tragico relazionale fondante, il nucleo della ferita. Alessandro esordisce, prima del lungo flashback, esortando il pubblico ad essergli padre. Dunque vuole un padre. Ma non può accettare il suo, anche se alla fine, tornato solo in scena, gli chiederà di dargli pace. Alessandro porta la colpa di aver distratto il padre sul camion, con una lite tra fratelli, col risultato di un incidente che ha costretto il fratello sulla sedia a rotelle. Alessandro in realtà tuttavia porta rancore per un fatto più primitivo, per aver sentito il padre lamentarsi con la madre su di lui bambino. “Non mi saluta. Non mi vuole bene”. Sembra banale, ma è sommamente patriarcale: un padre che chiede, e pur amando non sa dare né parlare.
La scena sfrutta appieno la struttura del teatro Basilica – col grande arco naturale sul fondo – per cercare un movimento ‘a corridoio’, dove a tratti vi è un emergere ed uno svanire, da e nell’arco; a tratti stratigrafie di luce tra sfondo e primo piano. Si apre con una teoria di cubi bianchi in fila, da dietro i quali emergeranno i nonni, e poi evolverà nella tavola del banchetto, in fondo – ultima cena e cena eterna – davanti a cui i personaggi si sgranano in stazioni separate, a destra e a sinistra, statue del dolore e della polemica, con un va e vieni dal fondo. A sinistra i fantasmi femminili della mediazione, dalla moglie morta alla figlia (in ginocchio vicino al padre, o ad abbracciarlo); a destra i figli doloranti ed il rancore.
Spesso vi sono controcampi: tra coralità e singoli, primo piano e sfondo.
O sottolineature con stop motion di alcuni rispetto all’agito drammatico di altri.
E c’è un uso sapiente del colore. Prevale il bianco, insieme nuziale e funereo.
Bianchi sono i cubi, ed il vestito dei più; e il velo da sposa scandisce passaggi simbolici e snodi narrativi. Copre i nonni all’inizio, poi addobba la tavola come una nuvola, poi avvolge e separa la sposa dolente, per diventare infine un separé, quasi un sipario in avanscena, contro cui premere il volto in mestizia e trasparenza. Su questo pochi colpi magistrali di controcanto con un drappo rosso, per mimare la torta nuziale, ma anche per rigare di sangue la tavola, e poi per accompagnare il feretro del padre, mentre emerge dall’oscurità dell’arco, retto da sei portatori.
Tra l’altro questo culmine drammatico diventa ierofania tragica dell’eterno ritorno e crucefige di una memoria e di ferite irrisolti dalla morte. La regista ha qui infatti una levata suggestiva, tra terzo teatro e ritualità alla Kantor (penso allo spettacolo ‘La classe morta’ con la sua recursività gestuale). Cominciano a girare in cerchio, prima che il tutto svanisca e si ritorni ai nonni, e poi al figlio solo in scena. Cominciano a girare in cerchio il corteo del feretro (in scuro e rosso), ed un controcorteo, in bianco, dei figli che spingono il padre simbolicamente in carrozzella.
Il cerchio della maledizione. Una maledizione senza rimedio.
Ed infatti il nonno, tornato in scena, borbotta “non c’è amore .. se avessi visto con gli occhi della morte .. ma da qui .. niente. Solo guardare e ricordare”.
Sì, la maledizione: solo guardare e ricordare. Dall’aldilà lui, da vivo il nipote, che infatti invoca dal padre la pace, per spezzare il cerchio, della memoria, del rancore cocciuto, della mancanza e del dolore.
Quindi, concludendo, dalla nostra regista e drammaturga, e dalla sua squadra, un’altra intelligente anatomia del massacro, in tragedia e delicata mestizia.
Difficile parlare della recitazione di ognuno. In generale tutti forti nella postura e nella gestualità, che toccano più toni. Il parlato invece talora forse un po’ troppo sul gridato e popolaresco, che se nelle scene di gruppo (in cui eccellono) è azzeccatissimo, talvolta nell’individuale vorrebbe più mezzi toni.
Resta comunque una splendida ed accorata sinfonia di spettri.
Famiglia – Di Valentina Esposito – Compagnia Fort Apache Cinema Teatro – con Alessandro Bernardini, Luca Carrieri, Matteo Cateni, Chiara Cavalieri, Viola Centi, Massimiliano De Rossi, Massimo Di Stefano, Gabriella Indolfi, Giulio Maroncelli, Piero Piccinin, Giancarlo Porcacchia, Fabio Rizzuto, Cristina Vagnoli – Costumi: Mari Caselli Ideazione scenografica: Valentina Esposito – Scenografia: Andrea Grossi – Luci: Alessio Pascale – Musiche: Luca Novelli – Fonico: Simone Colaiacomo, Organizzazione Giorgia Pellegrini, Segreteria Ilaria Marconi – Teatro Basilica 9/12 novembre 2023
Foto di Scena Jo Fenz e Ilaria Giorgi