Tra «l’anime di color cui vinse l’ira» spunta Mike Tyson che morde l’orecchio all’avversario
Nella storia del cinema sono stati molti i tentativi di trasporre sul grande schermo il viaggio narrato da Dante lungo i regni dell’Aldilà: tutti esperimenti, se non proprio falliti, certamente poco riusciti. Se pure è possibile ideare una serie di raffigurazioni attraverso le indicazioni suggerite dal poema, e quindi poter ricostruire gli ambienti ad uso e consumo cinematografico, è assai improbabile accompagnare la poesia con le sequenze di una rappresentazione realistica, o fantasiosa, o metaforica, o (come in questo caso) iperrealistica. Seguire l’andamento poetico ed emotivo nel cammino impervio della sensibilità dell’endecasillabo dantesco è un’impresa a perdere. Paradossalmente il lungometraggio che più si avvicina alla descrizione del racconto di Dante è quello della Milano Film del 1911. S’intitola L’Inferno (e si può rintracciare su Youtube): pellicola senza sonoro, quindi priva dell’ingombrante peso poetico che schiaccia ogni immagine. A rivederlo oggi sembra un filmato apparentemente ridicolo (non faccio fatica ad ammetterlo), ma ha un grande valore descrittivo ed è anche fedele al diario di viaggio del pellegrino; non certo alla poesia! Qualunque altro tentativo – dove la poesia prende il sopravvento – scivola nel baratro dell’assurdo, dell’improbabile, dell’inconsistente.
Matteo Gagliardi sceglie per il suo «Inferno», che vede come una Mirabile visione, la strada più semplice, tanto da risultare banale, utilizzando all’inizio di ogni canto ferme illustrazioni pittoriche (soprattutto quelle tratte dall’iconografia ottocentesca di Francesco Scaramuzza, colorate con tecnologici pastelli) mosse appena da qualche effetto costruito al computer, per poi commentare visivamente il racconto con spezzoni di video del presente o del passato prossimo, cercando di trovare un nesso tra ciò che si vede e quel che si ascolta: i versi di Dante. In questo modo tra i peccatori ipocriti si vede Ursula von der Leyen e poi Renzi; tra color cui vinse l’ira – quelli che si colpiscono troncandosi co’ denti a brano a brano – spunta Mike Tyson che morde l’orecchio dell’avversario durante un famoso incontro di boxe, passato ormai alla storia; tra i suicidi appaiono i ritratti di Edoardo Agnelli e di Marilyn Monroe; e quando Dante s’appressa ai traditori dei benefattori (coloro che sono vicino a Lucifero) viene riproposto l’attacco aereo alle Torri gemelle del 2001.
Insomma la mirabile visione, che nelle intenzioni del regista sarebbe una trovata educativa per ricordare che ogni riferimento della Commedia ha sempre un occhio volto al presente, a ogni presente della nostra storia, è soltanto una sequela di ovvietà. Non mancano le immagini dell’olocausto, dei cadaveri seppelliti nelle fosse comuni, dei barconi che vomitano in mare umanità disperata, risorge perfino Totò Riina in un processo che lo vide più come bugiardo che come assassino, mentre tra i fumi di un’esplosione fa breccia il sorriso di Giovanni Falcone. Gli avari e i prodighi diventano gli artefici del consumismo; al posto dei golosi irrompe una spietata catena alimentare tanto meccanizzata quanto commerciale. Ah, dimenticavo, secondo voi poteva mai mancare il fungo dell’atomica? Certo che no!
Come se non bastasse i versi di Dante vengono interrotti in continuazione dai commenti e dalle spiegazioni di una apodittica professoressa (interpretata da Benedetta Buccellato) che non lascia mai spazio all’ipotesi di un dubbio. Lei è il verbo incontestabile, mentre sulla Divina commedia, dopo settecento anni di studi, la critica ancora si dibatte su chi realmente si possa nascondere dietro colui che fece per viltà il gran rifiuto. Appartati, in un mondo più tranquillo e lontano dalla bagarre quotidiana, vengono amministrati con cautela i saggi consigli di un prete (Luigi Diberti), sereno e pacato, sembrerebbe il Virgilio dello spettatore, colui che guida i suoi sentimenti durante l’ipotetica lettura del poema. I suoi interventi sono l’unica nota positiva di una Commedia davvero poco divina. Sì, perché – e Diberti lo sa bene – per declamare i versi serve uno studio particolare, che non è complicato, ma occorre un buon insegnamento e un po’ di pratica. Gagliardi preferisce far leggere (che è tutt’altra cosa che declamare) gli endecasillabi, non a chi ha studiato dizione in Accademia, ma a voci giovani e fresche, inesperte e vocalmente claudicanti. La mia non vuol essere un’osservazione generica e pretestuosa, senza fondamento: nell’audio del filmato ci sono le prove. Qualcuno, infatti, è riuscito perfino a porre un accento tonico sull’ultima sillaba del verso (VII, 28), un abbaglio che la struttura del poema mai contiene: quel … pur lì, anche se accentato a fine verso va letto pùr li, ché fa rima con ùrli e con bùrli: la regola dice che la scansione del verso batte sempre sulla decima sillaba. Inoltre, (VI, 74-75) … superbia, invidia e avarizia sono (l’endecasillabo si deve far sentire nella sua unità) le tre faville c’hanno i cuori accesi: leggere la frase come fosse prosa significa deturpare il verso dell’esatta scansione sillabica. E Dante che sapeva a memoria l’Eneide di Virgilio, ha scritto la sua opera da poeta e non da cronista.
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Mirabile visione: Inferno, documentario di Matteo Gagliardi (2022), con Benedetta Buccellato e Luigi Diberti. Sceneggiatura, Filippo Davoli, Matteo Gagliardi, Federica Tonali. Regia, Matteo Gagliardi. Cinema Andromeda, 9 ottobre 2023
Foto di copertina: «Stavvi Minos orribilmente e ringhia» (canto V). Dalle tavole di Francesco Scaramuzza