Andrea Tidona, attore siciliano tra i migliori interpreti del teatro e del cinema italiano, sarà in scena al Teatro Tor Bella Monaca dall’1 al 3 novembre con lo spettacolo Agamennone di Ghiannis Ritsos, con la regia di Alessandro Machìa (una produzione di Zerkalo).
Nella presentazione dello spettacolo Agamennone viene descritto come “umanissimo, antico e contemporaneo al tempo stesso”. Tradizionalmente siamo abituati a vedere questo personaggio ben lontano dall’umanità, com’è stato possibile renderlo così “umanissimo”?
Io penso che ci sia un grande equivoco su queste figure, perché sono i nostri antenati, dai quali però non ci siamo così distaccati. Basta pensare ai vari miti: Medea che uccide i figli, quando sentiamo parlare di una madre che uccide un figlio, ci sembra un’enormità e effettivamente lo è, ma non è un’invenzione di oggi, è qualcosa che arriva da lontano, come il marito che uccide la moglie e viceversa, la moglie il marito come nel caso di Agamennone e Clitemnestra. E, a proposito di molestie, anche Fedra, che si inventa si essere stata violentata dal figliastro per vendetta. Queste non sono “invenzioni” di oggi. Spesso la tragedia viene vista come qualcosa di lontana, esagerata, enfatica: è invece l’essenza dell’umano.
In questo caso, siamo facilitati dalla riscrittura di Ritsos che lo porta addirittura in un ambiente borghese, con delle espressioni borghesi e con un’oscillazione continua del ricordo, del passato, recente per Agamennone, più remoto per noi che ascoltiamo. Man mano che lo spettatore entra in questa dimensione questo andare avanti e indietro nel tempo e nelle condizioni diventa meraviglioso.
Io penso che la tragedia andrebbe rappresentata sempre, continuamente, perché è lì che affondiamo noi, anche se spesso viene esasperata.
E questo “antico e contemporaneo al tempo stesso” com’è da intendere?
Ritsos spinge molto sull’umano e sulla semplicità, ma contemporaneamente sulla complessità dell’umano. Noi siamo complessi, ma se andiamo ben a guardare c’è una linearità, una semplicità.
È moderno perché rispecchia quello che oggi viviamo e affrontiamo, come l’essere sovrastati e sommersi dall’immagine e a queste immagini dobbiamo rispondere. Agamennone regredisce a una nuova puerilità per togliersi da quest’immagine, da questo ruolo dell’eroe, del guerriero che è un elemento contemporaneo. Tutti siamo ossessionati dall’immagine, basta guardare i social, una rete dalla quale ci facciamo avviluppare arrivando a diventare “fuori di testa”, alienati.
Agamennone rifiuta questo ruolo, quest’immagine che gli impone il mito, vorrebbe spogliarsi di tutto ciò e in questo senso è molto moderno.
Non è la prima volta che si approccia al mito, penso al recente “Edipo…seh”. Da dove nasce questo suo interesse?
Nasce dalla convinzione profonda che lì ci siano le nostre radici e che il mito andrebbe indagato e studiato e sentito, soprattutto. Se non passa l’emozione allora appare come qualcosa di lontanissimo, che non suscita il giusto interesse.
Forse il motivo è anche che io ho iniziato, i primi anni, con Shakespeare e Sofocle, questo mi ha molto affascinato e coinvolto , me lo porto dentro. È una scommessa dal mio punto di vista riuscire a interpretare questi testi rendendoli immediati e contemporanei, facendo sentire che non sono storie lontane, mummificate, “da museo”, ma estremamente vive.
Edipo è nato dal fatto che io, affascinatissimo da questo testo, ho pensato di farne una lettura diversa, per il piacere di farlo conoscere; a questo si è aggiunta la mia capacità di imitare e così è nata l’idea di portarlo in scena come se fossero altri attori che lo stessero recintando. Si è creata così questa combinazione di tragico e di umorismo pirandelliano, una combinazione che vede un pubblico spiazzato, pur rientrando sempre nel solco della tragedia.
Io come attore farei una tragedia all’anno.
Nella sua intensa carriera ha toccato diverse aree del mondo dello spettacolo, fra cinema, televisione, doppiaggio e teatro: dove ha sentito di aver potuto esprimersi al meglio, dar voce al suo essere? E quale mondo le ha lasciato di più?
Alla fine, è sempre il teatro che vince. Devo dire che prima di fare film interessanti e importanti come I cento passi o La meglio gioventù, avevo partecipato alle classiche “du cose”, personaggi di passaggio che non sono veri personaggi, per me era un modo di guadagnare dei soldi. Non mi aveva mai colpito la cosa, erano situazioni in velocità.
La prima volta dal punto di vista del divertimento è stato ovviamente La vita è bella, perché era divertente lavorare con Benigni, in tutto quel meccanismo, c’era grande professionismo, c’erano Premi Oscar di mezzo. Ma è stato quando ho fatto I cento passi e La meglio gioventù che ho capito cosa significasse recitare davanti alla macchina da presa e quanto fosse bello e difficile. Il cinema ti richiede una concentrazione terrificante, tu non hai un arco di sviluppo del personaggio, della scena com’è in teatro, è tutto un frastagliarsi di cose. Se non hai la capacità da te di trovare una uniformità diventa impossibile riuscire a trovare la forza e la situazione richiesta dalla scena di turno. Il cinema mi ha dato questo grande insegnamento dell’elasticità, di concentrazione, della prontezza a richiesta.
Come ho già detto, però, vince sempre il teatro, anche se io ho imparato da tutto quello che ho fatto,anche quando agli inizi ho fatto il direttore di scena, il tecnico, l’aiuto regista, il doppiaggio. Tutto contribuisce se lo fai con il piacere di farlo.
Durante i suoi anni da attore ha avuto modo di lavorare con registi di natura e stile diversi. Quale fra questi ha avuto più influenza su di lei?
Non c’è niente da fare, chi ha avuto più influenza è sicuramente Strehler. Strehler era Strehler, straordinario e in più io ero appena uscito dall’Accademia, avevo fatto solo un anno di professionismo, è come fare oggi una masterclass di altissimo livello. Ci son stato quattro anni e ho assistito a lavori su Brecht, Shakespeare e ho visto un genio, un genialoide all’opera, e mi sono ritrovato in mezzo a degli attori straordinari. È così che capisci la macchina del teatro e come questi attori si inseriscono in questa macchina del teatro che Strehler crea. Quello è stato sicuramente una partenza eccezionale.
Oltre lui, ovviamente anche tanti altri con i quali ho lavorato,alcuni meno. C’è stato un periodo in cui c’era un’idea molto intellettualistica del teatro. Per me il teatro è artigianato, il teatro si fa.
Io dico sempre «io non sono un artista, io sono un artigiano»: il fabbro picchia sul ferro, il falegname lavora il legno, io ho il privilegio di lavorare con le emozioni, ma sempre artigianato è. Basti pensare a Gassman che non a caso aveva chiamato la sua scuola “La bottega di Gassman”.
Ricordo bene le prove del Re Lear di Strehler: io stavo sempre in quinta a guardare. Quello per me è il periodo caposaldo, l’inizio di tutto.
Visto il suo bel rapporto con le nuove generazioni e considerando l’attuale situazione in Italia che lascia poca speranza a chi vuole vivere di questo mondo dello spettacolo, cosa direbbe a un giovane che sogna un palcoscenico, una sedia in regia o altro, per invogliarlo a provarci comunque?
Non lo so, anzi mi chiedo proprio «chissà se lo rifarei», nel senso che mi chiedo quali stimoli mi dovrebbero arrivare oggi guardandomi attorno. Forse perché appartengo a un’altra generazione e ho avuto altre conoscenze che oggi non ci sono più. Non a caso nello spettacolo Edipo…seh facevo Gassman, Stoppa, Tognazzi perché erano i miei idoli, oggi idoli non ne avrei.
Penso però che se uno ha un sogno, (ma il sogno deve sempre rispondere a un principio di realtà , altrimenti rischierebbe di cadere nell’illusione) e ha la passione, in questo caso smodata, ci deve provare perché è la sua vita e la deve vivere nel migliore dei modi, nel modo in cui lo fa sentire vivo.
Oggi è tutto così caotico, velleitario, unito all’illusione della televisione, oggi puntano a quest’immagine, a buttarsi fra soap opera e telenovelas, qualunque cosa pur di apparire. Ma è qui che ci sono le trappole peggiori per distruggerti professionalmente, per non capire esattamente cosa voglia dire fare l’attore, cosa sia dal punto di vista tecnico, senza capire la necessità di studiare sempre, di imparare.
Il musicista per poter suonare ha bisogno di uno strumento e deve studiare, non ci si può improvvisare. L’attore è diverso, in qualche modo ci si può improvvisare. Ma bisognerebbe aver coscienza del fatto che l’attore è strumento e strumentista, questo significa che lo strumento deve essere in perfette condizioni per essere suonato e lo strumentista deve essere bravo a saperlo suonare. Se si ha questa coscienza si capisce che bisogna studiare sempre, dalla mattina alla sera.
Quello che ci circonda oggi non è che porti proprio in questa direzione, quindi uno rischia di perdersi e demoralizzarsi. Per questo quello che serve sono sogni e passione e poi si va.
Dopo questo Agamennone ha già altri progetti in programma?
Sì, sempre con Alessandro Machìa abbiamo in programma Ifigenia in Aulide da portare in scena a dicembre. Quindi sempre un Agamennone,qui però è un uomo molto combattuto, molto umano. Si confronta con questa voglia di gloria, ma al tempo stesso di “non avere il pelo sullo stomaco” per andare avanti.