Uccelletto fuggitivo, tu canti, io …
Splendido spettacolo questo, diretto da Orazio Rotolo Schifone, Santa Maria della Pietà: Le Agitate, da lui pensato e splendidamente scritto da Luisa Casasanta, qui anche attrice superlativa, come del resto tutti gli altri.

Splendido ed una operazione oltre che artistica, intelligente, e di alto valore politico, di resistenza e testimonianza, in un momento in cui il vasto spettro delle diversità è oggetto di attacchi e tentativi di emarginazione, da parte della destra mondiale.
E quale maggiore area di diversità e silenzio che non quella della sofferenza mentale, che non usufruisce neanche del fascino alternativo dell’orgoglio di genere.
La malattia mentale è prima di tutto solitudine, silenzio sociale. E nonostante la riforma Basaglia (1978), con l’apertura dei manicomi, e l’idea della socializzazione della sofferenza, già allo stato attuale risulta un’area tutt’altro che bonificata. Trovata la legge infatti e trovato l’inganno. E così, oltre alle lentezze nella chiusura delle strutture ( il Santa Maria della Pietà chiude solo nel 2000, 22 anni dopo), non c’è miglior attacco dell’ostruzionismo. Così, come l’aborto non è un diritto uguale in tutte le regioni, ancor meno lo sono l’accoglienza e l’inserimento sociale dei malati mentali, per carenza di strutture, personale, volontà e formazione.
E’ chiaro che allora le persone restano un problema, e la segregazione una tentazione, una tentazione che si fa progetto di legge nel governo Meloni, dove aumentano i giorni di trattamento sanitario obbligatorio che può essere fatto all’interno di un reparto di psichiatria e anche nelle carceri, ed il criterio torna ad essere la pericolosità.
Il servizio psichiatrico, recita il progetto, deve essere finalizzato alla difesa di operatori, familiari e società dalla violenza e dall’aggressività, e quindi essere pensato con criteri securitari e difensivi.
Sovviene il celeberrimo saggio di Michel Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione (1975). Carcere e ospedali psichiatrici sono solo una igiene di controllo da parte del potere, per oliare il funzionamento sociale, e non, come reciterebbe la costituzione italiana, luoghi di cura rieducazione recupero reinserimento, secondo il dettato della parità e dei diritti.
La solitudine. Già è molto.
Ma il manicomio era di più.
Non solo ti isolava. Ti lacerava, ti faceva a brani, certo anche fisicamente, con l’elettroshock e la contenzione (legati al letto di notte e di giorno), ma soprattutto interiormente, brutalizzando ogni tuo tentativo di essere umano e relazionale.
“Lasciami, mi strappi”
Così recita una filastrocca di Ugo Betti. Impigliata è la nuvola, a primavera, sul campanile. La nuvola, la leggerezza e la libertà, impigliate nella legge, o meglio, nel moralismo coercitivo. Ma poi la libera il vento, e l’uccelletto fuggitivo canta.
“Canta. Io” … Nel testo dice “io scrivo”.
Ma qui è silenzio. Pina si ferma prima della parola.
Lo spettacolo infatti si apre con un urlo dietro le quinte, a cui seguirà l’irrompere di una delle recluse, Mara. Ma all’urlo risponde il sogno patetico dietro il quale si rifugia la malata più anziana, Pina, quello innocente recitato dalla filastrocca.
Perché lei era una maestra, e continua a sognare, disegnando con gessetti trafugati finestre sui muri. Così rimuove la sofferenza, in lei forse veramente psichiatrica, anche se la sua isteria e depressione si sapranno poi avere radice forse nel suo essere lesbica.
L’uccelletto canta, ma lei non scrive, non vola. Sogna. Non parole per esprimersi, ma il sogno muto che si apre nella disobbedienza del disegno, sui muri, fatto di gessetti rubati e nascosti.
E’ lei che tutti proteggono, nella sua fragile innocenza dostoevskiana, nei suoi momenti di panico, confusionali, ma pure è lei a proteggere tutti col suo dilagante sentimento di sogno, la sua spaesata dolcezza, in un’altalena resa mirabilmente da Masaria Colucci.
Una Masaria Colucci luminosamente vibratile in mimica postura voce, nel eseguire l’altalena, a scatti ed improvvisi, di tenerezza evasione sgomento. O quasi comica quando per difendersi da accuse o pericoli estremi, urlacchiando, accusa il duce, o inizia a cantare Kalinka, una canzone popolare presso l’Armata rossa, come a voler andare all’attacco.
Vero delirio? L’abilità istrionica delle isteriche, di cui parlava Charcot?
Comunque un commovente armamentario di difesa personale, per resistere alla segregazione.
Ma lei è l’unica, forse, veramente malata.
Le altre sono segregate per mandato delle famiglie, per punire lo scandalo o eliminare un fastidio, o entrambe le cose. Siamo infatti al reparto XVII, quello delle ‘agitate’, che nella realtà era il XIV. La ripartizione per padiglione non era infatti su base diagnostica, ma solo riferita ai comportamenti, ed è chiaro che non potevano che esserci comportamenti agitati, di sgomento, ribellione, rabbia, in donne internate per atteggiamenti di pubblico scandalo.
Le agitate, le ribelli del sesso e dell’amore.
Mara che abortisce da una mammana il figlio di un marito violento e alcolista. Rossana, che sposata giovane, non può fuggire dal marito, ma lo tradisce. Entrambe denunciate e fatte rinchiudere dai mariti. Anita, figlia di nobili, rinchiusa da loro perché ninfomane, ma anche per escluderla dalla eredità.
Escluse, rabbiose, solitarie.
Ma prima del naufragio lo spettacolo inscena la solidarietà, forse con un pizzico di eccesso di lucidità in queste donne rispetto a quella che era la realtà.
Così poeticamente qui pian piano si aprono e solidarizzano, raccontandosi, trovandosi simili, riuscendo a ridere, emettendo addirittura brandelli di ideologia, come tante sagge Alde Merini.
Ma dicevamo. Entra Mara, col sangue che le cola tra le gambe, invadendo la sobria scenografia: pareti grigie, con sbarre alle finestre, e al centro un tavolaccio, dietro il quale, a parete, si alza verticale una striscia di vetro, che nel buio si fa sorgente di luci inquietanti. Mara vorrebbe una finestra. Fuggire, uscire fuori. Pina gliela disegna, ma la corregge : ”entrare fuori”. Uscire si esce dentro. Sembra un calco del napoletano iesce a rintro; ma il significato è profondo. Fuori dal manicomio entri, entri nel mondo, sei a casa tua. Dentro al manicomio esci dal tuo mondo. Sei fuori. Escluso e recluso. Fuori dalla vita.
Le presenze poi si susseguono alterne.
La suora, complessa, bigotta e rancorosa, severa e frustrata, ma anche protettiva, e sotterraneamente filo basagliana, tanto da scontrarsi col primario, nazista di mente, violentatore seriale delle pazienti, e gelidamente metodicamente teoricamente sadico. Un vero vertice il loro scontro di fioretto minacce allusioni, lei una splendida e gelida Laura Mazzi, ecclesiale; lui un Edoardo Purgatori abilissimo ad indossare sia la violenza sicura dell’abuso, sia il lato insicuro, qui, con la suora, tracotante e sempre sull’orlo dell’isteria.
Poi Anita, inizialmente snob e litigiosa, nella speranza di essere trasferita grazie alle sue conoscenze. E Rossana, esuberante ex partigiana. E l’infermiere, Adriano, un delicatissimo e vibratile Mattia Teruzzi; inadatto alla repressione e perciò duramente catechizzato dal dr Pugni, è di natura gentile, accudente, nonché segretamente innamorato di Anita. Splendida in tal senso la scena in cui sono di notte in giardino, lei in libera uscita, e lui poeticamente corteggiante, dove esplode poi tutta la tragedia della prigionia. Lei ha saputo che non la trasferiranno, e all’idea che l’infermiere conosca la sua diagnosi (ninfomania) ha una crisi violenta, interpretando come un approfittarsene il corteggiamento di lui. Ma non è che un attimo di fragilità. E’ paura e disperazione.
Capisce subito che quello di lui è amore, e lo ammonisce. Non ti affezionare. Io non esisto. Certo. Perché chi è recluso è uscito dentro. E’ fuori dalla vita. Ed inoltre lei da sempre non esiste, non esistendo per l’amore dei suoi.
Ma dicevamo della solidarietà.
Intanto bella e dai toni popolareschi la scena in cui Mara e Rossana si scambiano le confidenze sessuali, irridendo se stesse ed i maschi, ed invocando la libertà. Mica li devono fare loro i figli !
Ma ancor più forte è la solidarietà che diventa soccorso.
Mentre Anita e l’infermiere sono in giardino – in realtà col permesso del primario, per allontanarli – il dr Pugni tenta di sedurre Mara. Lei si ribella, e lui le rotea intorno, sempre più stringente ed angosciante, e poi la stringe e preme da dietro. Ma deve rinculare e rinunciare quando entra Pina, e lo minaccia col gesto della pistola.
Segue una esplosione espressionistica. Mentre nel retroscena si sente la suora litaniare una poco ortodossa giaculatoria – Madonna mia / che faccio co’ sto corpo imbastardito – pian piano alla litania si uniscono tutte, recitandola sfalsata, le donne, in piedi in scena, sotto la sferza di colpi di luce stroboscopici, come a mimare l’elettroshock. Poi tutto cambia. Ora il dr Pugni giace riverso, supino, sul tavolaccio, illividito dalla striscia pulsante di luce rossa verticale che esce dalla parete. Ed è oggetto di un violento e vampiresco pasto cannibalico, dove tutte, come baccanti assatanate, sembrano farlo a brani, con morsi e coltellate.
Solo un disperato sogno.
Sono scomparsi il primario e Pina. L’ha uccisa per vendetta? E’ fuggito?
La suora esorta l’infermiere, l’unico ancora puro, ad andarsene da quell’inferno, senza indagare. Magari a Gorizia, da Basaglia.

Ora esplode la musica di Mistero, di Laszlo De Simone, e nel buio le voci delle agitate crescono a gazzarra col crescere del volume della musica, come in un delirio di urla e latrati. Perché nel manicomio amore e solidarietà non possono che naufragare in una caccia selvaggia di tutti contro tutti. Tutto ti strappa, sei solo, e l’uccelletto fuggitivo canta invano.
Una bella sinfonia di luce e tenebra, e una bella squadra, tutti.
E gli applausi sono generosi.
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Santa Maria della Pietà: Le Agitate – ideazione e regia Orazio Rotolo Schifone – drammaturgia: Luisa Casasanta – con: Masaria Colucci (La Pina), Luisa Casasanta (Mara), Aura Ghezzi (Anita), Laura Mazzi (Suor Maria), Edoardo Purgatori (lo psichiatra, Dr. Valerio Pugni), Elena Vanni (Rossana), Mattia Teruzzi (l’infermiere, Adriano) – scene: Umberto Fiore e Gloria Mancuso – light design: Umberto Fiore – musiche originali: Giulio Casa – costumi: Nora Viti – aiuto regia: Rebecca Righetti – responsabile scene: Jean Paul Ame – assistente costumi: Riccardo Marcatili – Off Off Theatre di Roma 9-13 aprile 2025