L’intervista “impossibile” alla regina dello scat
In un bell’articolo di quattro pagine firmato da Marco Molendini, uno dei critici musicali più autorevoli, a corredo del reportage campeggia una storica fotografia in bianco e nero: seduti uno di fronte all’altro, due icone del jazz, Miles Davise Billie Holiday, sorridono in modo naturale. «Hanno l’aria felice», osserva Molendini, mentre descrive la scena nella Persian Room dell’Hotel Plaza di New York, dove erano ospiti speciali di una serata organizzata dalla CBS Records per celebrare la collana discografica dedicata al jazz. Era il 9 settembre 1958: di lì a poco, Miles avrebbe inciso il suo capolavoro Kind of Blue e, quella stessa sera, si sarebbe esibito insieme a musicisti del calibro di John Coltrane, Cannonball Adderley, Bill Evans, Paul Chambers e Jimmy Cobb. Cosa si poteva desiderare di più?
Già, la grande Ella, vero usignolo del jazz. In Italia si esibì in concerto numerose volte; una delle ultime fu leggendaria: davanti a quindicimila spettatori a Roma, nell’antico anfiteatro del Circo Massimo, aprì le “danze” con la splendida Night and Day di Cole Porter.
Allora aveva 65 anni, di cui quaranta dedicati a una carriera inimitabile, eppure sembrava una ragazzina. I suoi virtuosismi provenivano dalle corde vocali, che con maestria leggiadra le permettevano di avventurarsi in impervi sentieri musicali, pieni di curve a gomito, fatti di improvvisazioni e scat: l’arte di imitare strumenti musicali con la voce, senza pronunciare una parola. Così, se in programma c’era How High the Moon, ecco spuntare la citazione di Ciribiribin; se il medley era dedicato al Brasile, ecco pronta The Girl from Ipanema, fino a sconfinare nell’americanissima Fly Me to the Moon.
Ma il momento più emozionante della serata, conclude Molendini, fu il medley dedicato a Duke Ellington, con Ella accompagnata dalla leggendaria chitarra di Joe Pass. Un’energia che ti fa sentire il fuoco nelle vene: puro swing, con brani come Mood Indigo, fino al trionfale finale tra un tripudio di applausi con It Don’t Mean a Thing (If It Ain’t Got That Swing).
Invidio, come grande appassionato di musica, jazzisti come Bill Conti, quando iniziava a farsi conoscere grazie ai western di Sergio Leone con Clint Eastwood, chitarrista e pianista eccezionale; e poi lo stesso Woody Allen, che ascoltavo suonare il clarinetto in albergo già dai tempi del suo esordio cinematografico con Lo Stato libero di Bananas al Taormina Film Fest. E ancora l’ottimo Lino Patruno, e tanti altri, compreso Dizzy Gillespie, che proprio Molendini mi presentò durante un concerto a Roma.
Non avevo mai avuto la fortuna di incontrare personalmente Ella Fitzgerald, così ho immaginato di farlo per un’intervista impossibile, proprio a New York, dove anni fa girai un docufilm dedicato all’Apollo Theatre, al 253 West della 125th Street di Harlem. Seduto in platea, ai piedi di quel palcoscenico che ha consacrato artisti come James Brown, Dionne Warwick, Sarah Vaughan e, naturalmente, la divina Ella, regina dello scat, abilità rara e preziosa nel periodo d’oro del jazz. Con il suo scat, esploderanno successivamente swing, bebop, blues, samba, gospel e calypso.
Ed eccola, ora, scendere dal palcoscenico con un sorriso radioso, sedersi accanto a me in platea e ricordarmi che, in fatto di scat, solo Louis Armstrong poteva tenerle testa.
Signora Fitzgerald l’hanno definita l’usignolo del jazz. Cosa ha rappresentato per lei il jazz?
Il jazz è vita, l’unica cosa nella vita migliore del canto è cantare il jazz, è un modo di vivere. Da questo teatro elevato alla storia del jazz, ho cominciato la mia carriera quando avevo solo 16 anni. Debuttai qui nel 1934 in una delle famose serate amateur nights dedicate ai giovani emergenti. Mi esibii con la band del batterista Chick Webb e ricordo ancora gli applausi del pubblico dell’Apollo, un pubblico di veri intenditori. Quando finii la serata con la celebre Mister Paganini, non riuscii a raggiungere il mio camerino tanto fu l’entusiasmo e i complimenti da parte dei tanti appassionati presenti. Poi dopo la scomparsa di Webb formai la Ella Ffitzgerald and her famous Orchestra.
Quando avvenne l’incontro con Louis Armstrong?
Nei miei concerti, già lo imitavo con quel suo vocione inconfondibile, poi negli anni ‘50 quella di apparire sui dischi di artisti di maggior richiamo, diventò una prassi che realizzava laDecca, in cui per esempio figuravano insieme Armstrong con Crosby e l’orchestra di Jimmy Dorsey. Fu grazie quindi alla Decca che mi ritrovai a duettare con Louis che già ammiravo e con il quale abbiamo “creato” esecuzioni memorabili, incidendo dischi dal 1947 al 1951.
Con la Blue Moon incisi invece la sigla dei nostri spettacoli: Ella e Satchmo. Louis era un amico così come lo è stato Lionel Hampton. Ricordo la prima esibizione insieme avvenne al Jazz at the Philharmonic, dove incidemmo tre album che andarono a ruba e uscirono con la copertina dal titolo Ella and Louis again, dove fu inserito materiale inedito inclusi dialoghi e false partenze che si trasformavano in sketch, a sottolineare il buonumore che aleggiava durante la registrazione.
Che ricordi ha di quel fantastico duo?
Una memorabile versione di Stompin’ at the Savoy di Benny Goodman di oltre cinque minuti. Dopo l’esecuzione del tema mi lanciai in una improvvisazione ai confini fra swing e bop seguito da un chorus di tromba di Louis e poi in duetto dove lui evocava i nomi di musicisti leggendari tra i quali il mio amico Norman Graz. E alla fine Summertime. Una delle cose più belle fatte insieme.
Signora Fitzgerald lei ha inciso brani con i più grandi di sempre da Armstrong a Duke Ellington da Oscar Peterson a Tommy Flanagan.
Dimenticavo Frank Sinatra, ma del famoso clan il primo a eseguire scat fu Sammy Davis jr con Sinatra Dean Martin seduti che si consumavano per l’invidia. Con Frank in concerto a New York fu esaltante quando intonammo di The lady is a Tramp.
A Hollywood ha interpretato anche tanti film e soprattutto una grande amicizia con Marilyn Monroe.
Purtroppo se ne è andata troppo presto in quella Hollywood avara di sentimenti veri. Marilyn era una creatura favolosa, assai lontana dagli stereotipi cinematografici che gli avevano garantito successo e infelicità. Le dicevo sempre «Marilyn, non rinunciare mai a provare e ricordati sempre che nella vita non è importante da dove vieni e dove stai andando». Marilyn era in anticipo sul suo tempo e non lo sapeva. Qualche giorno dopo la sua morte il grande Jean Coctau disse che la sua scomparsa sarebbe dovuta servire come monito a tutti coloro la cui occupazione ieri come oggi consisteva nello spiare e tormentare le star del cinema e non solo.
La vostra amicizia si sviluppò negli studi dove Marilyn girava gli interni di Niagara e lei i film commedy con Gianni e Pinotto.
No! In realtà ci eravamo conosciute prima, lei amava il jazz e comprava i miei dischi. Poi nel 1963 durante il periodo delle proteste per i diritti civili negli Stati Uniti di ritorno da una serie di concerti in Europa anche in Italia, tra Roma, Milano e il Metastasio di Prato, accettai l’invito per un’intervista per la radio con il popolare conduttore Fred Robbins. Quell’intervista non andò mai in onda. Raccontavo l’amaro ritorno negli Stati Uniti e la deriva razzista del mio Paese proprio a Hollywood; malgrado l’enorme successo dei miei dischi e dei concerti era impossibile esibirsi non solo in alcuni Stati come in Alabama, ma anche a New York e a Los Angeles, dove non riuscii a cantare nel mitico Mocambo, celebre tempio del jazz, fino a quando raccontai tutto a Marilyn Monroe. Lei il giorno dopo chiamò al telefono il proprietario e gli disse che se lui mi avesse dato la possibilità di esibirmi, lei si impegnava a venire tutte le sere seduta in prima fila accompagnata da altre star ad assistere alle mie esibizioni. «La stampa impazzirà», gli disse e lui accettò.
Oggi i giovani amano il rap, il jazz è solo per un pubblico adulto?
Sarà così! Il jazz è come l’opera lirica, non muore mai e comunque amico mio io resto con lo scat!
La vidi svanire dietro una tenda, mentre con un cenno ritmato della mano mi salutava, proprio nel momento in cui, dal fondo del palcoscenico dell’Apollo, si levava la sua inconfondibile voce, intonando Hello, Mister Paganini.




