Intervista a Francesco Giuffrè, regista di “Amleto è mio fratello”

Regista e docente teatrale, Francesco Giuffrè debutta sul grande schermo con il film “Amleto è mio fratello”. Il suo, un omaggio alla potenza salvifica del teatro.

Lo scorso 31 agosto, il debutto sul grande schermo di Francesco Giuffrè con “Amleto è mio fratello”, una divertente e commovente pellicola che vede protagonisti quattro ragazzi diversamente abili; la loro vita; la loro passione. Il loro, un viaggio alla ricerca della libertà; alla ricerca della salvezza mossi dal grande amore per il teatro. Nel corso di una piacevole chiacchierata, il regista racconta alle pagine del nostro giornale la nascita della sua prima creatura cinematografica.

Da poco ha debuttato sul grande schermo con la sua opera prima, “Amleto è mio fratello”. Com’è nata l’esigenza di raccontare al grande pubblico questa storia?

È nata molto casualmente: uno dei produttori, con cui ci conosciamo da tantissimo tempo, della Flat Parioli ne ha letto e me lo ha proposto. Erano incuriositi dal poter raccontare la storia di persone diversamente abili. Ho fin da subito accettato perché mi sembrava di veicolare il messaggio attraverso il cinema, che ovviamente rispetto al teatro ha una maggiore forza di portare i ragazzi fuori anziché portare la gente a teatro. Insomma, ogni volta che le persone venivano a teatro ne rimanevano veramente scossi; sorpresi, perché il lavoro che facevamo – cosa di cui sono stato attentissimo nel riportarlo anche nel film – era quello di non speculare (o di mostrare) quelli che sono magari i lati più emotivi dove sarebbe stato più facile il gioco di far commuovere, o irretire lo spettatore. Ho raccontato quello che ho vissuto per cinque anni lì, cioè anche una normalità della patologia. Quello che ho cercato di portare in questa storia cinematografica è stata proprio la loro bellezza che in cinque anni ho avuto la fortuna di incontrare e condividere con loro.

Potremmo dire che il suo sia stato un lavoro di trasposizione sul grande schermo di quella che è – al di là di ciò che sia convenzionalmente considerata normalità – di una realtà altra.

Prima di quei cinque anni non avevo alcuna esperienza del genere. Come dire, il concetto di normalità è sempre abbastanza scontato. È ovvio che ci sia una concezione sociale per cui la normalità sono dei comportamenti nella norma, per l’appunto. Ecco, queste persone, un pochino le infrangono perché hanno un modo di relazionarsi che non è convenzionale; ma questo non vuol dire che sia sbagliato, peggiore o meno bello. Mentre noi tendiamo ad omologarci; loro non hanno questa capacità. Loro vivono i rapporti in maniera più intensa; tutto viene vissuto “per eccesso”. Ecco, per questo, loro sono ECCEZIONALMENTE abili; NON diversamente abili perché in fin dei conti ognuno di noi ha delle abilità diverse l’uno dall’altro.

Quello che nel film viene toccato con mano, è il delicato tema della malattia mentale. Una tematica che inevitabilmente riporta in luce il valore terapeutico intrinseco il teatro. Crede che in tal senso il teatro possa avere una forte incidenza come cura?

Assolutamente sì. Innanzitutto il teatro ha salvato me, nel senso che mi ha dato nella vita una direzione. Al di là di questo fatto strettamente personale, in questi cinque anni ho visto degli effetti realmente oggettivi di ragazzi che entravano a testa bassa; che si nascondevano sotto le panche; che non volevano affrontare alcun tipo di confronto, affrontare poi un pubblico. È indubbio, quindi, che la condivisone – il teatro non è altro che questo – li faccia sentire in qualche modo integrati.  Il teatro è fortemente terapeutico nel suo essere comunicazione, apertura, condivisione. Sarà pure retorico dirlo, ma credo che debba essere introdotto nelle scuole perché sono sicuro ci sarebbe meno bullismo, meno violenza. Verrebbe meno la mancanza di alternative, di curiosità, di passione. Lavorando, appunto, nelle accademie teatrali con i ragazzi vedo in loro una vera passione salvifica. E il film è un omaggio a questo; al teatro: il teatro è il luogo in cui ho incontrato questi ragazzi; il teatro è il luogo che ci ha unito. Il fatto di fare questo viaggio è un po’ il viaggio che loro fanno tutti i giorni: trovare attraverso il teatro quella libertà; quella spensieratezza che nella quotidianità forse non hanno.

Il teatro, come ormai è risaputo, sta vivendo una forte criticità. Direzionarne la sua rifondazione a partire dal suo valore terapeutico; salvifico crede che possa essere la – o comunque una delle molteplici – strada giusta da percorrere?

Sicuramente sì, anche se abbastanza utopica considerato che ad oggi il teatro sembri qualcosa che non serva. Stiamo andando sempre più verso delle necessità essenziali, perché sono tempi complicati sicuramente. A parte essere un mestiere, il teatro potrebbe essere certamente una strada per migliorarsi. Essendo appunto una condivisione; essendoci un gruppo volto ad un unico scopo, in teatro non può esserci il tempo delle differenze; non può esserci il tempo della violenza. E questo credo possa essere salvifico anche per una società (anche se sembrerebbe non esser preso in considerazione).

Il film da lei diretto, vede accanto ai quattro protagonisti alcuni tra i nomi più blasonati del mondo attoriale (Claudia Gerini, Vincenzo Salemme, Francesco Paolantoni, Nino Frassica, Margherita Buy). Per chi come loro, oltre ad avere una carriera già avviata, appartiene ad una realtà altra rispetto a quella dei protagonisti; qual è stato l’approccio umano e professionale?

Non nego che la presenza di questi nomi sia legata ad un’esigenza produttiva che aiuta; può aiutare il film. A parte Claudia Gerini che ha un personaggio con un continuum arco narrativo, gli altri sono dei camei proprio perché ho cercato di non creare mai un’ombra sui ragazzi. La cosa che a me divertiva – e sono stato contento di questo – è che per una volta delle persone che sono quotidianamente un po’ relegate ai margini, in questo film sono assolutamente al centro della storia e della narrazione (pur la presenza dei “grandi nomi” a loro un po’ servisse). E questo fin da subito lo hanno accolto tutti. Il rapporto tra loro ed i ragazzi è stato immediato, perché loro hanno un modo di essere per cui tu, sì, puoi arrivare con un preconcetto; ma creare un bellissimo rapporto sul set è stato facile. Credo che sdoganare il preconcetto sulla malattia mentale; sul disagio psichico sia fondamentale. E questo film è una piccola vetrina; un piccolo omaggio a questo.

Con “Amleto è mio fratello” è stato il suo esordio cinematografico. Vi sono in serbo futuri progetti in tal senso? Mentre sul fronte teatrale?

A livello cinematografico ad oggi stiamo cercando di dare vita ad un nuovo film, di cui sto scrivendo una sceneggiatura. A livello teatrale, invece, ad ottobre porterò in scena con gli allievi dell’Accademia Officina Pasolini “Delitto e Castigo”. Poi vi è un altro progetto, di cui però è ancora prematuro parlarne.