Al teatro Manzoni di Roma, dal 26 ottobre al 14 novembre, è in scena Slot, scritto e diretto da Luca De Bei, drammaturgo, regista e sceneggiatore.
Protagoniste due grandi signore del teatro, Paola Quattrini, nel ruolo di Alessandra, e Paola Barale, nel ruolo di Giada, affiancate dal talentuoso e versatile Mauro Conte, che interpreta Francesco, il figlio di Alessandra, giovane uomo alla perenne ricerca dell’armonia persino oltre la logica, il quale scopre nella madre una dipendenza dal gioco d’azzardo.
Il tema della ludopatia è stato recentemente trattato, sebbene con accenti teatrali completamente differenti, in Come va?, scritto e diretto da Paolo Spannocchi nel 2015, un percorso monologato attraverso i malanni capitali di oggi, e in Gran Casinò del 2017, scritto e interpretato da Fabrizio Di Giovanni, che ha portato a teatro il dramma sociale, la denuncia. A differenza di queste due rappresentazioni, però, “Slot” ha un nucleo storico che si inserisce perfettamente nella commedia tradizionale. E non è un tema facile da affrontare in una commedia; bisogna portare il pubblico a sorridere e a riflettere al contempo, a vedere l’aspetto insidiosamente seduttivo del gioco, ma anche quello distruttivo; è necessario dare alla pièce sfumature di dramedy, marciando tra il sorriso allegro e quello amaro. E Luca De Bei ci riesce bene.
Il Giocatore di Dostoevskij ci insegna che gioco e piacere sessuale vanno di pari passo, che l’eccitazione è una sola anche se ha due nomi. Ebbene, anche qui l’appagamento, o, meglio, il non appagamento di coppia e la ricerca del piacere nel gioco marciano su strade che si incrociano costantemente. Se ci pensiamo, anche quel biglietto di cui Giada e Alessandra parlano, quello che contiene un certo recapito, chiude il cerchio della sovrapposizione tra piacere ludico e piacere sessuale. Huizinga, nell’Homo Ludens, descrive perfettamente l’elemento ludico della vita, che può anche giungere all’aberrazione della guerra. E cos’altro è il gioco d’azzardo se non un conflitto bellico con se stessi?
Paola Quattrini, come sempre, colpisce per la bravura, per i suoi frequenti e cronometrici passaggi di tono recitativo: dal sorriso alla rabbia, dalla rabbia al pianto, dal pianto all’autoconsolazione snob, che, per il suo personaggio, rappresenta lo scudo per non farsi ferire dal mondo che la circonda; ma la ferita c’è e traspare anche quando la sua Alessandra non vorrebbe farla trasparire. Inutile sottolineare, poi, la sua bellezza e la sua naturale eleganza, “prestate” ad Alessandra, una donna che vive in un mondo di moda molto femminile e molto sensuale. Bravissima anche Paola Barale, che interpreta il non facile ruolo di Giada, una giovane mamma, sportiva e charmant, che ha rinunciato alla sua carriera di indossatrice per dedicarsi interamente al figlio piccolo. Anche lei è molto elegante, un’eleganza più sportiva, con tratti maschili, impreziosita da accessori molto femminili. Gli abiti contribuiscono a raccontare i personaggi e sono scelti benissimo.
Siamo di fronte a due donne in apparenza molto diverse, ma con eguali fragilità; due donne che hanno qualcosa in comune, la stessa polla da cui scaturisce il loro malessere di vita, ossia un uomo, ex marito di Alessandra e attuale marito di Giada.
Si tratta di un uomo senza nome, a differenza di tutti gli altri personaggi, persino di quelli che restano nell’ombra, come il bambino di Giada e la fidanzata di Francesco, il cui nome entra in scena come prova della sua stessa esistenza, tanto che la corretta pronuncia arriva con l’accettazione del suo ruolo. Questo non significa, però, che al pubblico non sia dato conoscere quest’uomo. È una conoscenza indiretta, che giunge non per quello che è, ma per l’effetto che produce sugli altri. Ognuno dei tre protagonisti offre la sua parte di lui, riverberata su se stesso. Interessante questa “tassellazione” conoscitiva della personalità attraverso le personalità altrui. In fondo, è ciò che facciamo tutti giorni: ci presentiamo al mondo come prodotto delle esperienze fatte e delle persone incontrate. Sotto questo profilo è molto toccante il momento in cui Giada “racconta il marito” ad Alessandra. Ricorda la splendida canzone di Mina “Anche un uomo”, solo che qui si invertono i ruoli. La donna di Mina è stata lasciata dal marito per una donna più giovane ed è a questa donna che si rivolge: le racconta quanto gli uomini siano fragili, “fatti di briciole che l’orgoglio tiene su”; le fa notare che un uomo può essere dolcissimo, soprattutto se al mondo gli resta solo una donna; le consiglia di non illudersi d’essere capita. “Ragazza mia” conclude “adesso sai com’è quell’uomo che mi porti via e vuoi per te”. Al contrario, in questa pièce la donna che parla è quella che ha strappato il marito all’altra; è lei che dispensa consigli, che parla saggiamente di come capire gli uomini, salvo, poi, essere smentita dai fatti.
In questo duello al femminile, Mauro Conte è “l’uomo che non è”: non è narcisista e distruttivo come il padre, non è un figlio dipendente, come il piccolo Giacomo, non è snob e politicamente scorretto, come la madre, non è gay, come Alessandra vorrebbe per poter essere la sola donna della sua vita, non è onnivoro, perché nutre amore per ogni essere vivente. Lo conosciamo attraverso le negazioni. Funge da fulcro: cerca di instaurare un buon rapporto con la nuova moglie del padre, si interessa al fratellino ed è accudente con la madre, a parte un momento di rimproveri e rivendicazioni relative al passato che ai più anziani potrebbero far canticchiare Balocchi e profumi. Le vicende degli altri gli ruotano attorno. Nel suo ruolo Conte è molto bravo, sempre misurato, persino nei momenti in cui si lascia andare, ma fa parte del personaggio, in fondo: mai sopra le righe.
Il testo è buono, divertente, profondo; è piacevole il carosello delle tre personalità che si incrociano costantemente, nel bene e nel male. Ci sono, tuttavia, alcuni punti che generano frizione. Pensiamo, ad esempio, a Francesco, al suo carattere morbido, delicato, ben disegnato anche dal veganismo. Che sia vegano viene detto nella parte iniziale, quando mangia il suo panino con il formaggio vegetale accanto alla madre, ed è una descrizione perfetta: attraverso quel dialogo scopriamo qualcosa di lui, grazie ai particolari arriviamo al tutto, abbracciati da quel meccanismo deduttivo sempre imposto al pubblico teatrale, cui non si può “narrare” la vicenda in modo letterario. Purtroppo, però, sul suo veganismo si torna poco dopo, quando Francesco incontra Giada e con lei instaura un “botta e risposta” sulle ricette a base di pesce, e questo dialogo suona ripetitivo, frena il buon andamento della storia, inceppa l’ingranaggio. Un inceppamento che si nota anche quando Alessandra racconta al figlio d’aver sognato l’ex marito a cena con la sua nuova moglie. È un racconto che introduce un vicolo cieco narrativo. Cosa aggiunge alla storia? Il senso onirico della realtà? L’esistenza della premorte cosciente o del viaggio astrale? Un’anticipazione puramente intuitiva di quanto verrà detto a breve? Tutti argomenti affascinanti, ma che, per far parte della pièce, dovrebbero trovare spazio nella storia, essere sviluppati; invece è una notizia che resta lì, viene confermata poco dopo, quando Giada afferma d’aver mangiato risotto con gli scampi, proprio come visto in sogno da Alessandra, ma prende forma di mero enunciato.
Anche sulle scelte registiche e scenografiche bisogna fare qualche notazione. Ottimo il dialogo tra Paola Quattrini e le luci della slot machine, in un bel simbolismo scenografico che racchiude sapientemente il mondo patinato e seducente del gioco, lo stesso che potremmo trovare nella Roulettenburg di Dostoevskij. Altrettanto buona la scelta del velatino di fondo, che immette in scena una parte immaginativa, evanescente, un’impressione, come direbbero i pittori francesi della seconda metà dell’Ottocento. Le quinte, invece, avrebbero bisogno di un camuffamento più deciso rispetto alla mera illuminazione che distingue esterni ed interni; basterebbe anche solo oscurarle, di quando in quando. Inoltre, la terza chiusura di sipario con le mezze luci in sala è distraente. Non se ne coglie la ragione precisa: prelude ad un terzo atto o è meramente funzionale al cambio di scena? In quest’ultimo caso avrebbe, forse, mantenuto più alta la soglia dell’attenzione del pubblico un cambiamento fatto a scena aperta ancorché a luci affievolite. Infine, l’escamotage del telefono per introdurre i personaggi o per spiegare un antefatto va benissimo, ma ripetuto più volte diventa troppo “meccanismo scenico” e poco “fatto concreto”.
Nel complesso è uno spettacolo che dona due ore di leggerezza e profondità al contempo, che rappresenta un dramma quotidiano e, fedele alla quotidianità, non s’involve solo nel dramma. Merita d’essere visto.
Un’ultima osservazione riguarda il pubblico: nonostante la direzione del teatro, all’inizio dello spettacolo, si raccomandi di tenere spenti i cellulari, c’è sempre chi li tiene accesi, incurante del fastidio che reca agli attori e al pubblico. C’è chi annulla la suoneria, ma, di tanto in tanto, controlla i messaggi, generando un irritante abbagliamento in chi gli siede accanto; c’è chi evita persino di annullare la suoneria. Durante lo spettacolo cui ho assistito, ha iniziato a squillare un cellulare nel corso di un dialogo segnato dall’intimità. Le due attrici sono state strepitose nell’inserire quel trillo nello spettacolo, improvvisando con arte e mestiere, ma sarebbe stato meglio se non vi fossero state costrette. Vi assicuro che si può vivere benissimo due ore senza cellulare. Provateci e godetevi lo spettacolo!