I POETI MALEDETTI AL BASILICA: FRA GRIDO E SUONO

Una luce diffusa illumina il palco quasi del tutto spoglio, un grande piano sulla sinistra l’unico oggetto ad occuparne la superficie: lunghi, precipitosi, i passi dell’uomo rimbombano fino all’orlo del proscenio dove un microfono, immobile, lo attende.

Una performance solista, un assolo costruito sull’alternanza tra voce, poesia e suono, quello dell’attore Andrea Trapani che porta sulla scena del Teatro Basilica di Roma ‘Io e Baudelaire – Who wants to live forever?’ della compagnia Biancofango per la regia di Francesca Macrì.

La memoria di un concerto, quello di Maurizio Pollini, prende corpo attraverso il timbro dell’interprete che, autore della drammaturgia assieme a Macrì, sceglie l’iper descrittivismo per la rievocazione delle atmosfere ricorrendo ad una forma aneddotica in prima persona.

Un prologo forse troppo esteso apre la strada alla prima esibizione musicale eseguita dall’interprete con indosso una grottesca maschera da asino, simbolo forse finalizzato ad incrementare il senso di inadeguatezza, minorità o latente frustrazione scaturita dal confronto tra il personaggio-persona e i miti cui egli assiduamente si confronta.

Si carnifica la poesia di Baudelaire assumendo corpo attraverso l’urlo feroce dell’attore eppure tale intensità drammatica non sembra trovare corrispondenza negli intermezzi di quest’ultimo che, avvicendandosi fra invettive e flusso di coscienza, costruisce un discorso discontinuo dove il frequente ricorso al citazionismo e l’impellente necessità di raffronto contenuta nel testo, negano allo spettacolo la possibilità di affermarsi come intuizione originale.

Se da un lato l’esibizione al piano, la gestualità e la mimica multi-espressiva, dimostrano una consolidata capacità attoriale e strumentale; dall’altro, l’impianto drammaturgico risulta poco coeso e la gamma eterogenea dei sentimenti rappresentati non sempre arriva a provocare il coinvolgimento e la partecipazione di chi guarda.

Sono però le componenti maggiormente implicite e sottese a rappresentare nello spettacolo gli interrogativi più pregni: al di là del “one man show” nostalgico che ricerca la propria identità attraverso il paragone col passato, al di là del trasversale senso di inappagamento, trapela un’esigenza condivisa ma non sempre discussa: quella di riappropriarsi del linguaggio poetico, delle sue proprie ultra-significazioni, per descrivere e raccontare il quotidiano.